28 dicembre 2007

Bon Voyage Année.

L'anno che arriva al trentuno dicembre è come se partisse per una destinazione di cui non si conosce l'indirizzo. La mappa del labirinto dei ricordi ci è sconosciuta. Quest'anno che prepara le valigie per salutarci, per lasciare il posto ad un anno nuovo, mi fa tenerezza. Eccolo là il mio Anno. E' appena entrato nella mia stanza, tutt'infreddolito, tenta di riscaldarsi il naso dietro la sua sua sciarpa marrone e verde, col cappotto a tre quarti, le scarpe nere dalla punta arrotondata e le stringhe rosse, gli occhi lucidi. Mi sorride mentre apre la valigia. Non mi parla ma nel suo sguardo riesco a scorgere tutti i momenti che posso dire di aver vissuto, pienamente. Un anno pieno d'incontri, alcuni davvero inaspettati, pieno d'allegria e di canzoni, pieno di carezze lontane e vicine, di tè in tazze colorate e di biblioteche affollate da gente un pò assonnata, di candele profumate, di lacrime amare e di abbracci consolatori, di telefonate iniziate col buio e terminate con un timido sole mattutino. Un anno di cambiamenti d'abiti mentali, di sfide e rinunce sopportate con un sorriso, a volte, smorzato. Un anno che ha indossato costumi colorati nel pieno della calura estiva, che s'è riparato dietro ad un ombrello precario nei giorni di pioggia capricciosa, che ha visto nebbia al di là dei finestrini e neve soffice come panna. Un anno che con me ha toccato luoghi solo pensati, ha stretto mani solo immaginate. Un anno che ha le spalle un pò ricurve, perchè si è fatto carico di tutto il passato, di tutte le esperienze che gli anni già partiti gli hanno consegnato, allo scoccare della mezzanotte. Ora tocca al duemilasette lasciare a quello che verrà un insegnamento, affinchè non si compiano più gli stessi errori. Ecco. La valigia è pronta, ben chiusa. Il nome sull'etichetta c'è. Destinazione: il Paese dei Ricordi. Mi siedo sul letto a gambe incrociate, il cuore mi batte forte, perchè ogni partenza è un pò un abbandono. Ed io, con le partenze, non sono mai stata brava. Qualcuno mi disse che bisogna imparare a gestire i propri affetti. Gli attaccamenti. Ed i distacchi. Per esser più forte. Il mio Anno continua a guardarmi come un maestro guarda il proprio alunno uscire dalla porta della classe, sapendo che non vi farà ritorno, perchè ormai è cresciuto.
Stamattina il mio Anno silenzioso, prima di partire, vi fa un augurio:
che guardandovi allo specchio, sappiate ridere di voi stessi;
che sappiate piangere per liberare ciò che è rimasto incatenato in fondo all'anima;
che possiate camminare dritti dinnanzi a voi anche quando là fuori la nebbia offusca il sentiero;
che riusciate ad amare e donarvi senza timore;
che possiate svegliarvi la mattina ed avere tra le ciglia l'immagine del vostro amore;
che la musica riempia i vostri silenzi;
che la poesia colmi i vostri vuoti;
che la bellezza dell'arte squarci il velo della malinconia del passato che spesso appanna il presente;
che guardiate, ancora con lo stupore di quand'eravate bambini, il mare d'inverno;
che vi emozioniate di fronte ad una bella foto;

che vi emozioniate.

Ciao duemilasette, buon viaggio laggiù.


On air: "Luce dei miei Occhi" - L. Einaudi.
Foto di Giacomo Cosua.

22 dicembre 2007

Pensieri di Luce.


A chi sorride per le strade senza nessun pacchetto in mano, a chi è gentile anche con chi non dà nulla in cambio, a chi non corre a comprare regali inutili, a chi non aspetta le feste del calendario per rivolgerti un pensiero, a chi ancora riconosce la magia del Natale, a chi si commuove quando vede gli zampognari che suonano nelle vie della capitale, a chi va a guardare il presepe in piazza San Pietro e si ricorda di quand'era bambino. A chi crede che in ognuno di noi ci sia del buono e non solo a Natale.
A tutte le persone che non sono fisicamente accanto a me, ma che sono presenti nella mia mente e nel cuore, da sempre e per sempre.
A tutte queste persone ed anche a chi non se lo merita, auguro di passeggiare su questo Natale come fosse una soffice moquette.


On air: "White Christmas" - L. Armstrong.

13 dicembre 2007

[Volver - Tornare]


Tutto inizia in una giornata di potente vento, in un cimitero di un “pueblo” vicino Madrid.
Le donne coi capelli raccolti in foulards colorati, lucidano, lavano, spazzano le tombe dei loro cari, come se stessero rassettando una parte della loro casa. Tutto è normale, calmo. Solo il vento scuote gli animi e li disturba. Regna una serenità che, a noi cittadini, lascia un’invidia ed un sapore agrodolce sotto al palato.
Chi vive nelle metropoli perde tanto, sia della vita che della morte, di tutte quelle usanze che fanno parte dei piccoli centri. La vista, nei cimiteri, si abitua a file interminabili di lumini che fanno luce su così tanti nomi che è impossibile ricordarli. Il traffico non rispetta i funerali nelle piazze, tutti corrono verso altre mete, verso la vita. Gli occhi non si posano più sul carro funebre vuoto che, muto, aspetta davanti alla scalinata della chiesa. Nessun manifesto bianco e nero appeso ai muri della città. I piccoli cimiteri di campagna dove ogni nome sulle tombe è capace di raccontare una storia, sono solo un ricordo. Il corpo senz’anima della zia, non è lasciato solo ma è assistito dalle vicine del paese che bisbigliano chiedendo “di come, di quando, di quanto la povera zia”, m’ha riportata indietro al 1999, quando ancora sedicenne, durante la notte, nel grande salone di casa di mia madre, a Napoli, ascoltavo le preghiere monocordi dei miei parenti e delle signore del paese, che in processione, venivano a dare l’ultimo saluto al mio amato nonno.

In questo film Pedro Almodóvar racconta della vita, della morte, degli odori, delle credenze piene delle ciambelle preparate, come un tempo, con la ricetta della vecchia zia Paula. Due sono i colori che pervadono ogni scena. Il rosso ed il nero. Il rosso di ferita, dell’amore, del dolore, del cuore, della violenza. Il nero che penetra gli occhi di Raimunda, il buio della sua paura, il nero della vergogna, delle bugie, il nero del segreto.
In questa storia i morti vivono nell’aldiquà. Loro tornano. I morti hanno odore, hanno mani e pelle, i morti parlano, sono presenti nell’assenza. Tornano per dire la verità, per scuotere vite trascorse nell’immobilità del segreto. I morti aprono porte socchiuse ed il vento porta il loro profumo. Si allargano le narici ai ricordi, si chiudono gli occhi per immaginare, ancora, come sarebbe potuto essere.
In questo paese alle porte di Madrid c’è tutto il nostro sud. I baci sulle guance senza staccare le labbra dalla pelle, i baci con lo schiocco, le braccia di donne - apparentemente fragili ed insicure ed invece così forti - capaci di tenere stretto qualcosa di veramente caro: la vita.
Una storia tutta al femminile, una storia di tragedie vissute tra le mura della propria casa, quella casa che dovrebbe essere “dolce” ed invece è solo dolore, paura e vergogna. Nel grembo si porta una figlia nata dall’orrore e dalla violenza, eppure, una madre riesce ad andare al di là anche di questo. Un figlio è come un braccio, come un occhio, come una parte di cui non si può fare a meno e così, la violenza, viene sepolta sotto le foglie dell’autunno e si aspetta il gelo dell’inverno che tutto placa. Il cuore si tramuta in pietra. Carta assorbente si impregna di sangue e di dolore. Le lacrime scendono senza pathos perché troppa è la rabbia per un gesto incomprensibile, perché contro natura. Un padre dovrebbe guardare la propria figlia non con lo sguardo che un uomo posa su una donna, col desiderio di possederla, ma con gli occhi di qualcuno che ha tra le mani un frutto ancora acerbo, con la consapevolezza di aver creato, col proprio seme, qualcosa di meraviglioso.
Dall’ingiusta Violenza si ribella l’ Incolumità, che insieme al Disgusto e alla Paura sono capaci anche di uccidere per salvarsi.
Tutto, allora, è legittimo. Anche la morte.

Il passato torna e fa paura perché lui ed il presente devono fare i conti.
Ogni personaggio di questa storia è reale, è vivo anche nella morte. Tenero quello di Agustina, la vicina malata di cancro che tutto consola, che tutto aggiusta, che tutto spera. Si riesce a dare un nome alle emozioni e persino a percepirne il profumo. C’è una Spagna surreale, calda, nera e bianca, cruda, violenta, solitaria, intensa e genuina. Ci sono molte delle nostre radici in questa storia di donne sofferenti che sopravvivono in questa vita.
La canzone “Volver” cantata da Estrella Morente è qualcosa che arriva fin dentro le ossa, che penetra ogni angolo di carne e squarcia la sofferenza attraverso le lacrime.
Il segreto viene rivelato e la rabbia si dissolve come il ghiaccio in una giornata d’estate.
La violenza ha un nome ma non un perché. Non si vuole cercare di capire, si vuole solo dimenticare. Seppellire il ricordo della violenza in un frigorifero e poi lasciare che, sottoterra, questa si decomponga.

Questo film parla delle donne, tutte. Di chi si prostituisce per arrivare fino alla fine del mese, di chi fa i capelli in casa come una volta, di una quattordicenne a cui si nega di vivere un’età che dovrebbe essere libera dalla paura e scevra da qualsiasi cattivo pensiero.
Parla di una madre che subisce un doppio trauma e nonostante questo riesce a perdonare, tutti, compresa se stessa.

Un film vero che entra nella nostra società descrivendone le stanze buie.

Perché si può essere presenti anche nell’assenza, perché la verità non dev’essere sepolta e la violenza dev’essere sconfitta, perché molti di noi sognano un mondo migliore in cui vivere. Compresa me.


On air: "Volver" - Estrella Morente.


*Questo film ha un suo perchè tutto mio*

09 dicembre 2007

Ta Peau sur Ma Peau


Il tuo sguardo non si posa su questo buio chissà da quanto tempo. Non conosce tempo il mio orologio da quando le tue parole si sono chiuse, da quando mi è impossibile disegnare la mia pelle sulla tua pelle. La tua sigaretta non fa più fumo, il rosso è diventato cenere. Le insegne luminose al neon non si specchiano più sull'asfalto di pioggia, eppure sento ancora il contatto dei tuoi polpastrelli sul collo.
Respiro i tuoi silenzi, mangio la tua paura a piccoli morsi, perchè è troppo amara. Su quell'albero non so salire. Non arrivo in cima. Sono "petite", io. Salto e salto ma non arrivo ad afferrare le ciliegie su quel ramo. Lanciami una ciliegia, ti prego, affinchè io possa morderne un lato, gustarne il sapore e mantere quella piccola metà, intatta, per un momento d'amarezza del cuore. Mi siedo sotto il tuo albero, alto e forte. Rimango con il mento sospeso in aria a guardare gli aerei che, leggeri, volteggiano in questo cielo aperto a tutte le traiettorie. Vedo i tuoi piedi dondolare, mi mordo il labbro. Voglio salire anch'io. Voglio mangiare quelle ciliege e sporcarmi il lato della bocca con quella polpa rossa. Ingoiare anche i noccioli, se necessario. Guardami. Io sono qua, sotto questi rami. Sto aspettando anche solo una ciliegia. Anche solo una.

On air: "Palace" - Mano Solo.

Foto di CapitaineCroc.

07 dicembre 2007

Maestri.

Quanti di noi, nell'arco della loro vita, sono stati accompagnati dalla figura di un maestro?.
Quanto la figura di un maestro ha inciso nelle nostre vite, sulle nostre passioni, sulle nostre insicurezze?.
Ricordo, con esattezza, il profumo della Mia maestra delle elementari. La maestra Carmela. Ho usato il carattere maiuscolo non per errore ma perchè la sentivo davvero Mia, sentivo un'appartenza a questa persona, per me, come una mamma. Si creano spesso dei legami così forti tra l'alunno ed il maestro.. legami che quando, inevitabilmente, prendono altre strade, s'interrompono, come ponti in costruzione. Si sa che ci sarà una prosecuzione al di là del cartello "opere in corso" ma si è consapevoli di dover proseguire la strada del ponte da soli, non potendo più stringere nella propria mano quella dei propri insegnanti.
Questi hanno un compito, che non è solo quello di erudirci ma quello, ancor più importante, di aprirci gli occhi sulla realtà che, per giocoforza, noi non conosciamo ancora, perchè troppo giovani o troppo audaci. I maestri hanno il compito di indirizzarci sulla strada che la loro esperienza ritiene più "giusta".
Ho avuto, nella mia vita, fortuna. Ho incontrato maestri severi ma, quasi sempre, giusti.
Sfortunatamente, però, durante il lungo periodo universitario - che volgerà, spero presto, al termine - non ho avuto la capacità di farmi rapire dalle parole di professori, forse perchè sempre troppo impegnati a correre da uno studio all'altro, da un corridoio di tribunale a quello della facoltà. Nessun contatto umano e interpersonale coi ragazzi in aula. Nessuna presa di coscienza, reale, che di fronte a noi non s'ergevano miti a noi contemporanei bensì persone fatte di carne e di ossa, come noi. Persone con le loro fragilità e con le loro paturnie, professori che, probabilmente, all'età nostra sbadigliavano anche loro durante l'ennesima lettura del codice di procedura penale, sfiniti sui banchi dell'aula magna.
Ieri, una rivelazione. Ieri, per la prima volta, la lezione mi ha appassionata. Non ho distolto lo sguardo nemmeno per un attimo dalla veemenza con cui il professore leggeva una sentenza riguardante lo stupro. Per la prima volta, in tutti questi anni, ho provato la passione per ciò che avevo tra le mani, per quel codice che finora mi sembrava solo un mucchio di norme senza vita, senza dinamica nè cuore. Oggi, finalmente, anche se - ahimè - con immenso ritardo, ho capito. Ho compreso che tutto ha un cuore, anche il diritto che sembra così arido, a prima vista.
Ho sfogliato gli articoli con la voglia di capire, di comprendere, con curiosa brama di sapere.
E' stato merito suo. Di quel professore che, in piedi, ha condotto la lezione, con quel suo accento marcatamente siciliano, con quel suo humor che lo contraddistingue. Quel professore che non è mito ma uomo. Dietro le spalle del noto avvocato ho scorto lo studente che è stato. Lui che riesce a condurre al ragionamento noi ragazzi, con delicatezza affronta temi difficili, rispettando il pensiero altrui e toccando con estrema sensibilità i problemi della nostra società, senza paura di dire le cose vere, crude, reali, le "cose nostre".
Sono qui stasera perchè, oggi, mentre tornavo a casa, ho provato lo stesso sentimento che provai per la mia maestra delle elementari. Sono felice, per la prima volta dopo anni, di dire: il Mio professore e di sentirmi alunna, condotta al di là del ponte.
Dovrebbero essercene di più di persone così. Per tutta la passione che c'è in noi e che ancora non conosciamo..

On air: "Fly" - L. Eiunaudi.

03 dicembre 2007

L'incanto.


Dicembre è entrato dalla porta. I negozianti, in bilico su scale precarie, iniziano ad adornare i loro negozi. Piccole luci colorate con le loro intermittenze scandiscono i minuti trascorsi a cercare parcheggio. Una polo blu gira e gira, come una trottola disperata intorno all'isolato. Una pioggia fina bacia i finestrini. Alzo lo sguardo a questo cielo domenicale che mi ha regalato emozioni, tutte da chiamare con diversi nomi. La mia vita in questi giorni.. Una biblioteca che ti avvolge con cento.ottanta.mila volumi antichi che profumano di scienza e tempo, un ragazzo dagli occhi teneri e profondi, dai gesti e premure d'altri tempi, nella cui vita sono caduta, così inaspettatamente; Santa Maria in Trastevere, aperta, di sabato, all'una di notte, mentre la gente suda dimendandosi in discoteca, vengo presa per mano da un amico greco che mi spiega, con una semplicità disarmante, le iscrizioni in greco del IV secolo. Ed è tutto così surreale. Si cena, tutti assieme. La tortilla de patatas di W., le polpette ed il rollé, le olive, i dolci alle mandorle, arrivati di corsa in pullman direttamente dalla Grecia, creati dalle mani di una madre lontana ma attenta. Si beve, si ride, si parla in un italiano così buffo, me compresa. Si gesticola per farsi capire, perchè Noi italiani, siamo bravi in questo. Una bella ragazza mi bussa al finestrino, sotto quel cielo domenicale. Ci stavamo aspettando. Sale in macchina, ci salutiamo come se ci conoscessimo da tempo. Forse è davvero così. Ci sono incontri che dovevano accadere, senza spazio e tempo prefissati sull'agenda. Incontri che - casuali - non sono mai. Le affinità come rotaie ci conducono alla stessa stazione. Al binario si aprono le braccia al coraggio di conoscere qualcosa che fino a poco prima s'ignorava e quello che si scopre sono le somiglianze anche nelle diversità apparenti. Gli accenti che scoprono il nome della terra a cui apparteniamo, i dialetti che colorano l'ambiente, il piccante e l'agrodolce, sapori delle proprie case. T'innamori, ti lasci affascinare, sgrani gli occhi quando ti rivelano qualcosa che ti sembra impossibile, accenni timidamente un passo di danza a suon di συρτάκι o di flamenco, fissando i passi che i piedi dell'altro, con sicurezza, compiono. Ci viene da ridere. Le nuvole, come su una giostra senza fine, si rincorrono su questo sfondo azzurro sporco.
Come nuvole ci siamo rincorsi, io e te. Ti ho ri-trovato, finalmente. Afferro il libro, la polvere viene spazzata via con un soffio di labbra. Lo accarezzo, lo stringo a me. Lo sento parte di me, di questa storia che di scrivere, ancora, ho voglia.

On air: "Due Tramonti" - L. Einaudi.

Foto di Capitainecroc.