27 febbraio 2008

Réalité?


Quel che fatico a digerire sono le frasi di latino arcaico misto alla lingua dei longobardi, che pure a volerle tradurre, "IL" si ribella. Tutto ciò perchè il professore che nel 1954 scrisse questo testo, era troppo pieno di sé per mettere la traduzione a fronte, per noi comuni mortali.
Quel che sopporto davvero poco è assistere all'intervista di quel manichino della Santanché, a Matrix, e rendermi conto che le persone che dovrebbero rappresentarci (che Dio ce ne scampi e liberi!) non fanno un uso corretto (dire "corretto" è già un complimento) della nostra lingua italiana. Ebbene sì. I verbi sono un optional. "Da quando sono bambina..", dice la cinquantenne. L'indicativo, con un colpo di natiche, manda nel dimenticatoio, l'imperfetto che - mesto mesto - torna al "paese dei verbi sconosciuti". Il pronome relativo "cui" viene sostituito da un prepotente "che".. che un posto non dovrebbe avere.. "La persona che ho parlato ieri...". Ho avuto un conato di vomito e nel guardare la sua bella fronte immobile, da quindicenne, grazie alle iniezioni di potente botulino, ho provato compassione.
La presa di coscienza di quant'è pericoloso vivere in un mondo tutto chiuso, tutto proprio, esclusivo, nel senso di "riservato a pochi" sventurati o fortunati, ha lo stesso effetto della saliva andata storta. Sgrani gli occhi e ti auguri che ciò che vedi sia davvero la realtà che, come una giostra di cavalli, gira nella tua testa. Ti auguri che la merda che hai intorno sia davvero merda e che quello che ritieni crema sia davvero crema. Che i tuoi occhi non alterino la verità, ecco.
Giusto così. Per non svegliarmi un giorno e capire che la crema non è mai esistita e le mie torte erano di plastica.

On air: "The Passenger" - Iggy Pop.

Foto di Claudio Martella.

24 febbraio 2008

Espoir.


E' già la quarta volta che inizio a scrivere l'incipit di questo post. Torno a leggerlo e, senza pensarci troppo, premo il pulsante "Canc".
Basta un click "a portata di dito" per far scomparire ciò che non ci piace, ciò che non ha preso la forma giusta, quella che noi volevamo. Vorrei scrivere, stanotte, con la stessa armonia con cui danza la fiammella di questa candela.
I pensieri si accatastano gli uni sugli altri come le pietre di quei muretti pugliesi, incastrate una ad una, con precisione, geometricamente imperfette eppure così perfettamente simmetriche le une dentro le altre. Così stanno i pensieri miei. So esattamente cosa voglio dirti, stasera. I pensieri sono gli stessi di quando sotto ai piedi avevo migliaia di metri colmi di vuoto, la punta del naso appoggiata all'oblò ed i pensieri volavano come aquiloni in libertà, fino a te.
Ricordo la sensazione che provai nel volerti abbracciare ed il senso di impotenza nel non poterlo fare.
Quel giorno di un mese fa, pensai che siamo tutti naufraghi che cercano di rimanere a galla, per raggiungere la terra ferma. Siamo viaggiatori nel deserto, a cui è stata consegnata una mappa senza la bussola, che cercano l'acqua. Siamo menestrelli stonati, cantastorie che provano a sorridere anche quando l'amaro è sulle labbra, per far divertire gli altri.
L'Amore muove ogni cosa, nel bene e nel male.
Il senso di vuoto che provi ogni notte quando appoggi i tuoi sogni sul cuscino, lo conosco.
Lo smarrimento la mattina, quando ti affacci al balcone e guardi le persone ridere. Quel senso di tristezza a cui non vuoi dare un nome, anche se un nome ce l'ha.
Quando finisce un amore, ti senti persa, vuota, esposta, piccola, vulnerabile. Ti senti come se ti avessero strappato via un organo vitale, un braccio, un occhio, portato via qualcosa che fino ad allora sentivi addosso, come una seconda pelle.
Si cercano le spiegazioni, sempre. Si cercano le risposte a tutti quei "perchè" così naturali, che danno rabbia.
Ti metti in gioco ancora ed ancora. Rimani con la testa per aria, dei minuti, sperando che le risposte, magicamente, si materializzino sotto al soffitto.
Ed ancora silenzio, ed ancora vuoto sotto ai piedi e nello stomaco. E ti viene da piangere e gridare che tutto questo un senso non ce l'ha!
La sua felicità non può costruirla sulla tua infelicità! Dannazione. Eppure, amica mia, è così. Vorrei avere parole che confortino, che t'accarezzino l'anima, che diano risposte alle tue domande, ma io - ahimé - non le ho. Ho riflettuto molto sull'amore, sul copione così crudele che, a volte, si mette in atto. Sul dare e sul ricevere. Sul ruolo che giochiamo come in una partita a scacchi con la vita stessa, sulle infinite possibilità del destino, sugli incontri che - casuali - ci cambiano la vita. Quel naufrago innamorato della vita, agita le braccia per farsi salvare. Mostra riconoscenza al suo salvatore e - poco dopo - s'imbarca su un'altra avventura, non degnando più di un solo sguardo chi gli ha teso la mano.
In questa vita non abbiamo un tasto "Canc" che ci permette di resettare i cattivi pensieri, di far sparire le persone che ci vogliono male, di tornare indietro nel tempo per poter cambiare le cose. Nessuna bacchetta magica, nessuna favola a lieto fine, purtroppo.
C'è una cosa che, però, ci tiene vive: il coraggio.
Il coraggio di cambiare, di affrontare le delusioni ed le brutture della vita. Siamo viaggiatrici, noi.
Forti, sebbene le gambe alle volte tremino. Decise, anche se la mappa del nostro cammino sia ancora incerta. Siamo donne, noi, col viso da bambine.
Non lasciare che nessuno rubi la tua gioia di vivere, di amare, di essere amata, la voglia di credere, di crederci, ancora.
Nessuno ti è indispensabile per vivere. Siamo tutti naufraghi, ma ognuno di noi, ha una sua terra che l'attende. Vicina o lontana essa sia.

La strada è lunga. Non perdere tempo. Mettiti in cammino! Ora!.

On air: "Nuotatore" - G. Allevi.

21 febbraio 2008

Tapis Roulant d'Emozioni.


“..le incomprensioni sono così strane sarebbe meglio evitarle sempre”.
Così recitava una canzone di qualche anno fa.
Non parlo italiano, non parlo francese. Non parlo spagnolo o inglese. Parlo il linguaggio del cuore, io. Quello che viene sputato fuori, di getto, dalla bocca dello stomaco. La lingua è un tapis roulant su cui si srotolano parole senza suono, ma se avrai orecchie attente, potrai percepirne anche le sottili pause.
I lampadari delle case sono spenti, piccoli insetti si inseguono, in circolo, sotto la luce del neon del lampione, giù in strada.
Stanotte è una di quelle notti in cui c’è tanto tempo per riflettere, ma troppo poco per parlare. Una notte di quelle in cui ti giri e ti rigiri nel letto. Le braccia incrociate sotto la testa, sono il tuo cuscino. Provi a distenderti sul lato destro, poi sul sinistro. Scosti coi piedi il piumone che sembra di cemento. Sistemi i capelli lunghi tutti da un lato mentre fissi le foto sulla console di fianco al letto. Ma nemmeno così il sonno cade sulle tue palpebre. La musica non colma quel vuoto che hai dentro, stanotte. Sotto il mento hai quell’espressione che avevi da bambina, quando qualcosa andava storto. Quell’espressione che chiamavi “mentuccio” e che bastava così poco per farla sparire. Porti le gambe al petto, come un feto. Ti viene in mente di quando tua madre ti raccontava che papà le appoggiava le cuffie dello stereo sul pancione, prima di andare a dormire, affinché tu potessi sognare gli angeli del cielo. Una notte era un Notturno di Chopin o il Clair de Lune di Debussy, se a decidere era mamma. La notte dopo c’erano le percussioni di Bruce Springsteen a parlarmi da quella spessa parete di vita e di pelle, se aveva vinto papà. Chissà se riuscivo a sentire quei suoni, a capire che i miei genitori si stavano amando. Dio.. quanto tempo è passato, eppure le percussioni di Bruce rimangono le stesse come i timpani che le ascoltano.
Vorresti essere altrove, stanotte. In un letto d’hotel, di quelli coi comodini uguali ed i cassetti vuoti, coi granelli di polvere impercettibile. Quegli hotels con la tivvù di fronte al letto e le lenzuola che hanno quel profumo di pulito industriale ed i cuscini sono sempre troppo alti o troppo bassi. Vorresti che nulla di ciò che hai intorno ti appartenesse. Nessun ricordo, nessun brivido che ti scivoli lungo la schiena. Vorresti ricominciare daccapo, da zero. Aprire una valigia e trovarla vuota. Ancora da riempire. Colmarla di sogni e speranze, di abiti colorati, tutti a fiori, così dannatamente inglesi, come il sangue che scorre nelle tue vene.
Vorresti che la porta della tua camera fosse la porta di un hotel. Che ci fosse disegnata la mappa del corridoio e la via di fuga in caso d’emergenza. Che ci fosse un estintore capace di spegnere le delusioni cocenti. Che quello che hai intorno non ti raccontasse la sua storia, che ogni cosa non portasse il suo nome.
Vorresti che sulla tua porta ci fosse disegnata una freccia con scritto: “Exit”. Vorresti che una volta imboccata l'uscita, ci fosse una strada tutta dritta, senza bivi, senza diramazioni. Che non ci fosse bisogno di voltarsi indietro, mai. Neanche per un istante.

"..le incomprensioni sono così strane sarebbe meglio evitarle sempre per non rischiare di aver ragione ché la ragione non sempre serve".

On air: "Streets of Philadelphia" - Bruce Springsteen.

Foto di Moumine.

17 febbraio 2008

Distanzattesa.


.29 Dicembre 2007. [ogni parola del passato ha voce]


Si cerca di prendere le distanze da tutto.

Dalle cattive notizie che ascolti al telegiornale, in cucina, mentre scoli la pasta; da una bestemmia gridata contro il cielo da un ragazzo che non conosci; dalla tristezza che aleggia intorno alle bancarelle degli indiani che per soli cinque euro ti vendono collane di perline che dita sottili, una ad una, hanno cucito ed infilato; dalla grettezza umana che è così grossolana; dal provincialismo nascosto dietro ogni griffe stampata su sciarpe marroni e nere; dalla solita grigia storia a cui non vuoi più dare un nome. Ti nascondi dietro il grande collo nero della giacca. Porti il cappello fin sotto le sopracciglia, guardando il mondo da una fessura. Un senso di costrizione ti prende alla gola, come se ti mancasse l'aria. Apri la bocca cercando di far uscire un vagito, come un neonato.
Vorresti che la sensibilità si stratificasse come si stratifica la cera sciolta delle candele. Avete mai provato a giocare col liquido caldo delle candele? Bene. Quando quel liquido si attacca alla pelle diventa immediatamente duro e solido. Vorresti che la pelle fosse come la cera dura delle candele. Vorresti che nessun fiammifero, nessuna fonte di calore s'avvicinasse alla tua candela, che non ci fossero più stoppino, nè scintilla alcuna. La sensibilità ti scortica, ti sbuccia come si sbucciano le ginocchia dei bambini in una brutta caduta, diventa pelle viva e poi fluido sangue.
Si nuota nei propri sogni e si ha paura d'affogare.


.17 Febbraio 2008. [la voce, oggi, rimane senza suono]

Si attende. La primavera. Una lisca di pesce. Un tappeto da graffiare. Una carezza.


On air: "Please, please, please, let me get what i want" - The String Quartet.

Foto di Moumine.

08 febbraio 2008

Girami il Cuore.


Il termometro segna tre gradi. Gocce ricche di gelo scendono lentamente sul parabrezza della macchina. I respiri appannano il vetro. Ti guardo e sento che la paura sale veloce dal cuore alla gola, come in una corsa senza ostacoli. Le tue mani sono sempre più fredde, le tue ciglia tentano di velare il tuo timore ma i tuoi occhi non tradiscono i tuoi sentimenti.
Un ombrello nero ci ripara da quel freddo che ci gela le parole e ci mozza il respiro.
Sono lontana mille miglia da casa, eppure non mi sento persa. Mi sento solo esposta.
Sei uscito da quella stanza solo quando il mio sguardo ha raggiunto le prime luci delle case sul lago ed il contorno dei pini s'è fatto incerto.
Le tue dita infilate, come di nascosto, tra i miei capelli, in un momento d'abbandono, mi hanno fatta sentire al sicuro.
Sono rimasta sola, quella notte.
Quella notte in cui il led rosso della tivvù m'ha tenuto compagnia, notte lunga, la più lunga della mia vita.
Notte di campanelli rossi e tubi trasparenti, di camici bianchi e di vento freddo al di là del vetro, vento che potevo solo immaginare.
Ho aspettato il giorno, la luce tra quei rami che di notte cercavo con gli occhi ben aperti. Avevo paura di abbandonarmi tra le braccia di Morfeo, volevo a tutti i costi rimanere sveglia, contare le poche stelle che illuminavano il cielo come schegge di diamanti messe lì per caso, senza orientamento.
La testa girava e girava ed il cuore pulsava sempre più forte. Contavo i secondi ed i minuti che mancavano all'alba. L'attesa sembrava senza fine. Alle sei e mezza, finalmente, i primi uccelli hanno iniziato il loro canto.
Una speranza nel petto s'è aperta, come una finestra sul mondo. Mancavano solo due ore e tu saresti entrato da quella porta.
Avevo superato la notte come una "persona grande". Avevo vinto la paura di quel cielo nero così muto e l'odore forte di pulito - ma non di casa - delle lenzuola che ti penetra fin sotto la pelle.
Quella notte ho pensato a questo momento. Sì, ho pensato a quando mi sarei seduta qui, tra le mie cose, col mio pijama addosso, con la mia tastiera nera, a raccontare di quella notte che non finiva mai. Ho immaginato la mia espressione nel raccontare di quella notte che mai avrei pensato di vivere, parlando di me come se parlassi di un'altra.
Mi sento come la corteccia di un albero, che poco a poco si inspessisce sempre di più. Ogni esperienza, bella o difficile che sia, ci si stratifica addosso, come corteccia. La pelle diventa dura, affinchè possa resistere al gelo dell'inverno e al caldo torrido dell'estate.
Tu sei stato formica, sei salito sul mio tronco, con zampe sicure, sei riuscito ad insinuarti nel mio tronco e a trovare la mia linfa. In quella notte senza profumi, il tuo pensiero m'ha tenuta sveglia, m'ha dato il coraggio di aspettare il canto di quegli uccelli.
Oggi che sono a casa, l'odore di quelle lenzuola senza disegni rimane solo un brutto ricordo.
La luce del cielo di mezzogiorno, lo slittino sulla neve, il vapore dell'acqua delle terme in mezzo alle montagne bianche come panna, è ricordo vivo che mi parla e mi fa ancora tremare di gioia.
Mi gira la testa, ancora. Ma è per la felicità d'essere qua, di poter raccontare il piacere che si prova ad attendere qualcosa ed alla fine, nel vederlo arrivare.
Come diceva mio nonno: "Addà passà a' nuttat".

A' nuttat è passata.


[Grazie a Te che hai gambe forti come radici d'albero secolare e mani delicate come fiori di pesco.
Grazie ai miei genitori che mi amano sopra ogni cosa. Grazie a mia madre che ha affrontato le nuvole per prendermi in volo, tra una vertigine ed una giravolta di cuori.
Grazie a Camille, che a mezzanotte è stata colomba bianca in una notte così nera.
Grazie a voi, amici, per il vostro amore che mi ha scaldato la pelle in un momento di gelo].


Foto: "Voulant y croire" di Moumine.

On air: "Fuori dalla Notte" - L. Einaudi.