28 dicembre 2007

Bon Voyage Année.

L'anno che arriva al trentuno dicembre è come se partisse per una destinazione di cui non si conosce l'indirizzo. La mappa del labirinto dei ricordi ci è sconosciuta. Quest'anno che prepara le valigie per salutarci, per lasciare il posto ad un anno nuovo, mi fa tenerezza. Eccolo là il mio Anno. E' appena entrato nella mia stanza, tutt'infreddolito, tenta di riscaldarsi il naso dietro la sua sua sciarpa marrone e verde, col cappotto a tre quarti, le scarpe nere dalla punta arrotondata e le stringhe rosse, gli occhi lucidi. Mi sorride mentre apre la valigia. Non mi parla ma nel suo sguardo riesco a scorgere tutti i momenti che posso dire di aver vissuto, pienamente. Un anno pieno d'incontri, alcuni davvero inaspettati, pieno d'allegria e di canzoni, pieno di carezze lontane e vicine, di tè in tazze colorate e di biblioteche affollate da gente un pò assonnata, di candele profumate, di lacrime amare e di abbracci consolatori, di telefonate iniziate col buio e terminate con un timido sole mattutino. Un anno di cambiamenti d'abiti mentali, di sfide e rinunce sopportate con un sorriso, a volte, smorzato. Un anno che ha indossato costumi colorati nel pieno della calura estiva, che s'è riparato dietro ad un ombrello precario nei giorni di pioggia capricciosa, che ha visto nebbia al di là dei finestrini e neve soffice come panna. Un anno che con me ha toccato luoghi solo pensati, ha stretto mani solo immaginate. Un anno che ha le spalle un pò ricurve, perchè si è fatto carico di tutto il passato, di tutte le esperienze che gli anni già partiti gli hanno consegnato, allo scoccare della mezzanotte. Ora tocca al duemilasette lasciare a quello che verrà un insegnamento, affinchè non si compiano più gli stessi errori. Ecco. La valigia è pronta, ben chiusa. Il nome sull'etichetta c'è. Destinazione: il Paese dei Ricordi. Mi siedo sul letto a gambe incrociate, il cuore mi batte forte, perchè ogni partenza è un pò un abbandono. Ed io, con le partenze, non sono mai stata brava. Qualcuno mi disse che bisogna imparare a gestire i propri affetti. Gli attaccamenti. Ed i distacchi. Per esser più forte. Il mio Anno continua a guardarmi come un maestro guarda il proprio alunno uscire dalla porta della classe, sapendo che non vi farà ritorno, perchè ormai è cresciuto.
Stamattina il mio Anno silenzioso, prima di partire, vi fa un augurio:
che guardandovi allo specchio, sappiate ridere di voi stessi;
che sappiate piangere per liberare ciò che è rimasto incatenato in fondo all'anima;
che possiate camminare dritti dinnanzi a voi anche quando là fuori la nebbia offusca il sentiero;
che riusciate ad amare e donarvi senza timore;
che possiate svegliarvi la mattina ed avere tra le ciglia l'immagine del vostro amore;
che la musica riempia i vostri silenzi;
che la poesia colmi i vostri vuoti;
che la bellezza dell'arte squarci il velo della malinconia del passato che spesso appanna il presente;
che guardiate, ancora con lo stupore di quand'eravate bambini, il mare d'inverno;
che vi emozioniate di fronte ad una bella foto;

che vi emozioniate.

Ciao duemilasette, buon viaggio laggiù.


On air: "Luce dei miei Occhi" - L. Einaudi.
Foto di Giacomo Cosua.

22 dicembre 2007

Pensieri di Luce.


A chi sorride per le strade senza nessun pacchetto in mano, a chi è gentile anche con chi non dà nulla in cambio, a chi non corre a comprare regali inutili, a chi non aspetta le feste del calendario per rivolgerti un pensiero, a chi ancora riconosce la magia del Natale, a chi si commuove quando vede gli zampognari che suonano nelle vie della capitale, a chi va a guardare il presepe in piazza San Pietro e si ricorda di quand'era bambino. A chi crede che in ognuno di noi ci sia del buono e non solo a Natale.
A tutte le persone che non sono fisicamente accanto a me, ma che sono presenti nella mia mente e nel cuore, da sempre e per sempre.
A tutte queste persone ed anche a chi non se lo merita, auguro di passeggiare su questo Natale come fosse una soffice moquette.


On air: "White Christmas" - L. Armstrong.

13 dicembre 2007

[Volver - Tornare]


Tutto inizia in una giornata di potente vento, in un cimitero di un “pueblo” vicino Madrid.
Le donne coi capelli raccolti in foulards colorati, lucidano, lavano, spazzano le tombe dei loro cari, come se stessero rassettando una parte della loro casa. Tutto è normale, calmo. Solo il vento scuote gli animi e li disturba. Regna una serenità che, a noi cittadini, lascia un’invidia ed un sapore agrodolce sotto al palato.
Chi vive nelle metropoli perde tanto, sia della vita che della morte, di tutte quelle usanze che fanno parte dei piccoli centri. La vista, nei cimiteri, si abitua a file interminabili di lumini che fanno luce su così tanti nomi che è impossibile ricordarli. Il traffico non rispetta i funerali nelle piazze, tutti corrono verso altre mete, verso la vita. Gli occhi non si posano più sul carro funebre vuoto che, muto, aspetta davanti alla scalinata della chiesa. Nessun manifesto bianco e nero appeso ai muri della città. I piccoli cimiteri di campagna dove ogni nome sulle tombe è capace di raccontare una storia, sono solo un ricordo. Il corpo senz’anima della zia, non è lasciato solo ma è assistito dalle vicine del paese che bisbigliano chiedendo “di come, di quando, di quanto la povera zia”, m’ha riportata indietro al 1999, quando ancora sedicenne, durante la notte, nel grande salone di casa di mia madre, a Napoli, ascoltavo le preghiere monocordi dei miei parenti e delle signore del paese, che in processione, venivano a dare l’ultimo saluto al mio amato nonno.

In questo film Pedro Almodóvar racconta della vita, della morte, degli odori, delle credenze piene delle ciambelle preparate, come un tempo, con la ricetta della vecchia zia Paula. Due sono i colori che pervadono ogni scena. Il rosso ed il nero. Il rosso di ferita, dell’amore, del dolore, del cuore, della violenza. Il nero che penetra gli occhi di Raimunda, il buio della sua paura, il nero della vergogna, delle bugie, il nero del segreto.
In questa storia i morti vivono nell’aldiquà. Loro tornano. I morti hanno odore, hanno mani e pelle, i morti parlano, sono presenti nell’assenza. Tornano per dire la verità, per scuotere vite trascorse nell’immobilità del segreto. I morti aprono porte socchiuse ed il vento porta il loro profumo. Si allargano le narici ai ricordi, si chiudono gli occhi per immaginare, ancora, come sarebbe potuto essere.
In questo paese alle porte di Madrid c’è tutto il nostro sud. I baci sulle guance senza staccare le labbra dalla pelle, i baci con lo schiocco, le braccia di donne - apparentemente fragili ed insicure ed invece così forti - capaci di tenere stretto qualcosa di veramente caro: la vita.
Una storia tutta al femminile, una storia di tragedie vissute tra le mura della propria casa, quella casa che dovrebbe essere “dolce” ed invece è solo dolore, paura e vergogna. Nel grembo si porta una figlia nata dall’orrore e dalla violenza, eppure, una madre riesce ad andare al di là anche di questo. Un figlio è come un braccio, come un occhio, come una parte di cui non si può fare a meno e così, la violenza, viene sepolta sotto le foglie dell’autunno e si aspetta il gelo dell’inverno che tutto placa. Il cuore si tramuta in pietra. Carta assorbente si impregna di sangue e di dolore. Le lacrime scendono senza pathos perché troppa è la rabbia per un gesto incomprensibile, perché contro natura. Un padre dovrebbe guardare la propria figlia non con lo sguardo che un uomo posa su una donna, col desiderio di possederla, ma con gli occhi di qualcuno che ha tra le mani un frutto ancora acerbo, con la consapevolezza di aver creato, col proprio seme, qualcosa di meraviglioso.
Dall’ingiusta Violenza si ribella l’ Incolumità, che insieme al Disgusto e alla Paura sono capaci anche di uccidere per salvarsi.
Tutto, allora, è legittimo. Anche la morte.

Il passato torna e fa paura perché lui ed il presente devono fare i conti.
Ogni personaggio di questa storia è reale, è vivo anche nella morte. Tenero quello di Agustina, la vicina malata di cancro che tutto consola, che tutto aggiusta, che tutto spera. Si riesce a dare un nome alle emozioni e persino a percepirne il profumo. C’è una Spagna surreale, calda, nera e bianca, cruda, violenta, solitaria, intensa e genuina. Ci sono molte delle nostre radici in questa storia di donne sofferenti che sopravvivono in questa vita.
La canzone “Volver” cantata da Estrella Morente è qualcosa che arriva fin dentro le ossa, che penetra ogni angolo di carne e squarcia la sofferenza attraverso le lacrime.
Il segreto viene rivelato e la rabbia si dissolve come il ghiaccio in una giornata d’estate.
La violenza ha un nome ma non un perché. Non si vuole cercare di capire, si vuole solo dimenticare. Seppellire il ricordo della violenza in un frigorifero e poi lasciare che, sottoterra, questa si decomponga.

Questo film parla delle donne, tutte. Di chi si prostituisce per arrivare fino alla fine del mese, di chi fa i capelli in casa come una volta, di una quattordicenne a cui si nega di vivere un’età che dovrebbe essere libera dalla paura e scevra da qualsiasi cattivo pensiero.
Parla di una madre che subisce un doppio trauma e nonostante questo riesce a perdonare, tutti, compresa se stessa.

Un film vero che entra nella nostra società descrivendone le stanze buie.

Perché si può essere presenti anche nell’assenza, perché la verità non dev’essere sepolta e la violenza dev’essere sconfitta, perché molti di noi sognano un mondo migliore in cui vivere. Compresa me.


On air: "Volver" - Estrella Morente.


*Questo film ha un suo perchè tutto mio*

09 dicembre 2007

Ta Peau sur Ma Peau


Il tuo sguardo non si posa su questo buio chissà da quanto tempo. Non conosce tempo il mio orologio da quando le tue parole si sono chiuse, da quando mi è impossibile disegnare la mia pelle sulla tua pelle. La tua sigaretta non fa più fumo, il rosso è diventato cenere. Le insegne luminose al neon non si specchiano più sull'asfalto di pioggia, eppure sento ancora il contatto dei tuoi polpastrelli sul collo.
Respiro i tuoi silenzi, mangio la tua paura a piccoli morsi, perchè è troppo amara. Su quell'albero non so salire. Non arrivo in cima. Sono "petite", io. Salto e salto ma non arrivo ad afferrare le ciliegie su quel ramo. Lanciami una ciliegia, ti prego, affinchè io possa morderne un lato, gustarne il sapore e mantere quella piccola metà, intatta, per un momento d'amarezza del cuore. Mi siedo sotto il tuo albero, alto e forte. Rimango con il mento sospeso in aria a guardare gli aerei che, leggeri, volteggiano in questo cielo aperto a tutte le traiettorie. Vedo i tuoi piedi dondolare, mi mordo il labbro. Voglio salire anch'io. Voglio mangiare quelle ciliege e sporcarmi il lato della bocca con quella polpa rossa. Ingoiare anche i noccioli, se necessario. Guardami. Io sono qua, sotto questi rami. Sto aspettando anche solo una ciliegia. Anche solo una.

On air: "Palace" - Mano Solo.

Foto di CapitaineCroc.

07 dicembre 2007

Maestri.

Quanti di noi, nell'arco della loro vita, sono stati accompagnati dalla figura di un maestro?.
Quanto la figura di un maestro ha inciso nelle nostre vite, sulle nostre passioni, sulle nostre insicurezze?.
Ricordo, con esattezza, il profumo della Mia maestra delle elementari. La maestra Carmela. Ho usato il carattere maiuscolo non per errore ma perchè la sentivo davvero Mia, sentivo un'appartenza a questa persona, per me, come una mamma. Si creano spesso dei legami così forti tra l'alunno ed il maestro.. legami che quando, inevitabilmente, prendono altre strade, s'interrompono, come ponti in costruzione. Si sa che ci sarà una prosecuzione al di là del cartello "opere in corso" ma si è consapevoli di dover proseguire la strada del ponte da soli, non potendo più stringere nella propria mano quella dei propri insegnanti.
Questi hanno un compito, che non è solo quello di erudirci ma quello, ancor più importante, di aprirci gli occhi sulla realtà che, per giocoforza, noi non conosciamo ancora, perchè troppo giovani o troppo audaci. I maestri hanno il compito di indirizzarci sulla strada che la loro esperienza ritiene più "giusta".
Ho avuto, nella mia vita, fortuna. Ho incontrato maestri severi ma, quasi sempre, giusti.
Sfortunatamente, però, durante il lungo periodo universitario - che volgerà, spero presto, al termine - non ho avuto la capacità di farmi rapire dalle parole di professori, forse perchè sempre troppo impegnati a correre da uno studio all'altro, da un corridoio di tribunale a quello della facoltà. Nessun contatto umano e interpersonale coi ragazzi in aula. Nessuna presa di coscienza, reale, che di fronte a noi non s'ergevano miti a noi contemporanei bensì persone fatte di carne e di ossa, come noi. Persone con le loro fragilità e con le loro paturnie, professori che, probabilmente, all'età nostra sbadigliavano anche loro durante l'ennesima lettura del codice di procedura penale, sfiniti sui banchi dell'aula magna.
Ieri, una rivelazione. Ieri, per la prima volta, la lezione mi ha appassionata. Non ho distolto lo sguardo nemmeno per un attimo dalla veemenza con cui il professore leggeva una sentenza riguardante lo stupro. Per la prima volta, in tutti questi anni, ho provato la passione per ciò che avevo tra le mani, per quel codice che finora mi sembrava solo un mucchio di norme senza vita, senza dinamica nè cuore. Oggi, finalmente, anche se - ahimè - con immenso ritardo, ho capito. Ho compreso che tutto ha un cuore, anche il diritto che sembra così arido, a prima vista.
Ho sfogliato gli articoli con la voglia di capire, di comprendere, con curiosa brama di sapere.
E' stato merito suo. Di quel professore che, in piedi, ha condotto la lezione, con quel suo accento marcatamente siciliano, con quel suo humor che lo contraddistingue. Quel professore che non è mito ma uomo. Dietro le spalle del noto avvocato ho scorto lo studente che è stato. Lui che riesce a condurre al ragionamento noi ragazzi, con delicatezza affronta temi difficili, rispettando il pensiero altrui e toccando con estrema sensibilità i problemi della nostra società, senza paura di dire le cose vere, crude, reali, le "cose nostre".
Sono qui stasera perchè, oggi, mentre tornavo a casa, ho provato lo stesso sentimento che provai per la mia maestra delle elementari. Sono felice, per la prima volta dopo anni, di dire: il Mio professore e di sentirmi alunna, condotta al di là del ponte.
Dovrebbero essercene di più di persone così. Per tutta la passione che c'è in noi e che ancora non conosciamo..

On air: "Fly" - L. Eiunaudi.

03 dicembre 2007

L'incanto.


Dicembre è entrato dalla porta. I negozianti, in bilico su scale precarie, iniziano ad adornare i loro negozi. Piccole luci colorate con le loro intermittenze scandiscono i minuti trascorsi a cercare parcheggio. Una polo blu gira e gira, come una trottola disperata intorno all'isolato. Una pioggia fina bacia i finestrini. Alzo lo sguardo a questo cielo domenicale che mi ha regalato emozioni, tutte da chiamare con diversi nomi. La mia vita in questi giorni.. Una biblioteca che ti avvolge con cento.ottanta.mila volumi antichi che profumano di scienza e tempo, un ragazzo dagli occhi teneri e profondi, dai gesti e premure d'altri tempi, nella cui vita sono caduta, così inaspettatamente; Santa Maria in Trastevere, aperta, di sabato, all'una di notte, mentre la gente suda dimendandosi in discoteca, vengo presa per mano da un amico greco che mi spiega, con una semplicità disarmante, le iscrizioni in greco del IV secolo. Ed è tutto così surreale. Si cena, tutti assieme. La tortilla de patatas di W., le polpette ed il rollé, le olive, i dolci alle mandorle, arrivati di corsa in pullman direttamente dalla Grecia, creati dalle mani di una madre lontana ma attenta. Si beve, si ride, si parla in un italiano così buffo, me compresa. Si gesticola per farsi capire, perchè Noi italiani, siamo bravi in questo. Una bella ragazza mi bussa al finestrino, sotto quel cielo domenicale. Ci stavamo aspettando. Sale in macchina, ci salutiamo come se ci conoscessimo da tempo. Forse è davvero così. Ci sono incontri che dovevano accadere, senza spazio e tempo prefissati sull'agenda. Incontri che - casuali - non sono mai. Le affinità come rotaie ci conducono alla stessa stazione. Al binario si aprono le braccia al coraggio di conoscere qualcosa che fino a poco prima s'ignorava e quello che si scopre sono le somiglianze anche nelle diversità apparenti. Gli accenti che scoprono il nome della terra a cui apparteniamo, i dialetti che colorano l'ambiente, il piccante e l'agrodolce, sapori delle proprie case. T'innamori, ti lasci affascinare, sgrani gli occhi quando ti rivelano qualcosa che ti sembra impossibile, accenni timidamente un passo di danza a suon di συρτάκι o di flamenco, fissando i passi che i piedi dell'altro, con sicurezza, compiono. Ci viene da ridere. Le nuvole, come su una giostra senza fine, si rincorrono su questo sfondo azzurro sporco.
Come nuvole ci siamo rincorsi, io e te. Ti ho ri-trovato, finalmente. Afferro il libro, la polvere viene spazzata via con un soffio di labbra. Lo accarezzo, lo stringo a me. Lo sento parte di me, di questa storia che di scrivere, ancora, ho voglia.

On air: "Due Tramonti" - L. Einaudi.

Foto di Capitainecroc.

28 novembre 2007

Punto Senza Capo.

Stamattina il sole batte sul muro bianco del palazzo di fronte, quasi accieca il suo riverbero sulle finestre. La coperta rossa del vicino è sempre sul davanzale, come il mio sguardo. Un vuoto nella testa, alla bocca dello stomaco, negli occhi. Stamattina. Domattina. Dopodomani ancora. Il latte di soia s'è raffreddato subito. I biscotti sono finiti. Non mi sono leccata le dita, stamattina, per gustarmi le briciole di stelle attaccate ai polpastrelli.
Sono vuota, esposta, con le labbra all'ingiù dentro il mio mondo e col sorriso da clown per strada. Faccio sorridere, io.. invece, sono triste, dentro. Sull'ugola solo piccole vibrazioni. Ho sognato di cantare a squarcia gola ieri notte. Con tutta la forza che avevo in gola. Ora sono muta, come se qualcuno m'avesse rubato i suoni. Lo specchio è grigio. Il libro è sempre là. Ho scritto qualche pagina, ancora.. ma, tu l'hai chiuso. L'hai nascosto sotto il letto. Sono in ginocchio, a terra, piegata su me stessa, allungo il braccio, cerco di afferrarlo ma non ci arrivo. Non ci arrivo. Lo strato di polvere si farà pesante.

Si canta: "credi, possiamo sempre".

Voglio crederci, davvero. Ma è difficile. Oggi.

Ps. Posso sempre farmi suora o far all'amore come comanda dio.

Sì.



On air: "Possiamo Sempre" - G.Nannini.

Foto di Claudio Martella.

26 novembre 2007

Foglie Zuccherate.


Il paesaggio scorre mentre lei rimane immobile. Sulla lingua ballano parole mute. Le foglie raccontano della loro primavera. Tristi abbandonano i rami per baciare la terra. Quel verde le entra negli occhi, anche al buio può vederlo. Il muschio bianco profuma la stanza. Al di là delle tende rosse c'è tanto dolore ma così tanta vita. Tira il piumone fino a coprire i capelli. Trattiene il respiro, come sdraiata sul fondale dell'oceano. Sente i polmoni gonfi d'aria e sensazioni. Stringe, nei pugni, la coperta. Quando riapre gli occhi, tutto è scuro. Non sa dove mandare lo sguardo, non sa chi cercare. Riemerge ascoltando la terra sotto i piedi, eppure si sente così lontana. Senza peso nè età, senza senso, senza ossa nè cuore. Senza testa nè carne. Senza. Sprovvista di qualsiasi istruzione. - Senza.Voglia.Di. - La gente, al "Bar Départ" si saluta, s'abbraccia e si bacia. Lei è sola ed è foglia, abbandonata dal ramo. Tocca terra. Prende coscienza. Le ali si aprono. Tagliano le nuvole, il cuore sobbalza per qualche istante. Poi tutto torna com'era prima. Le dicono d'essere razionale. Le dicono di seguire la strada del cuore. Le dicono che "c'est la vie". Le dicono tante cose e lei l'ascolta, le raccoglie con le mani a conchiglia. Le conserva in una scatola, per farne tesoro. Quello che dovrebbe fare è ascoltare le rime che il cuore compone per lei, ogni sera. Quelle sere in cui lei, invece, soffoca il suo grido d'amore col cuscino ricamato di sogni e incertezze. Il grido di quella ragazza che, al bar delle partenze, ha affogato silenziose lacrime in un cappuccino troppo liquido e non le importava che gli altri la stessero guardando. "Che guardino pure!", ha pensato. Lei sa amare e sa piangere. Sa donarsi, lei. Fragile, dura, profumata, saporita, morbida, colorata, cosparsa di zucchero a granelli. Lei, come una caramella.


On air: "Lontano" - L. Einaudi.

Foto di Modimo.

22 novembre 2007

[Sopra(t)tutto Vita]


Viva come gatta in bilico sulla ringhiera. come acqua fresca che scorre dalla fontana della piazza. come due ballerini di tango. come primo bacio. come le tue mani sui miei fianchi. come quando ci lasciammo. come quando ti conobbi. come dita nel cioccolato. come vento sul viso. come gomiti appoggiati su finestrini a metà. come sangue di ferita. come sguardi lontani. come voglia senza confini. come lacrime amare. come grida nella notte. come tasti di pianoforte. come pensieri che scivolano ripidi.
Viva come adesso che, mentre sto ancora sorvolando le nuvole, il mio pensiero è stato più veloce. E' già arrivato fino a te. Ti sta accarezzando, ti sfiora le labbra ma tu non lo sai.

La Vita come un biglietto d'aereo. La fila non va saltata, ci regala attimi per riflettere. Prendo fiato, inspiro. Chiudo gli occhi, rido ad alta voce. Apro le braccia a questa vita, al di sopra del cielo, al di sopra di tutto.


On air: "Je t'emmène au Vent" - Louise Attaque.


Foto: "Vagabundo" - Alba.

20 novembre 2007

Ad una Stampella Appendo il Tempo.


Il tempo è una stoffa, di velluto rosso cangiante. La taglio in piccoli lembi, la cucio senza alcuna cognizione. Nessun ditale a proteggermi l'indice, il filo che uso è di un altro colore, ma, in fondo, non m'importa. Lo scucio dove mi sembra che la stoffa tiri un pò. Ecco!. Ora mi piace, così. Unisco i piedi, alzo le braccia verso il soffitto, come se dovessi tuffarmi verso l'alto, sfidando le leggi gravitazionali. Lo indosso questo tempo, lentamente. Il velluto accarezza la mia schiena nuda e la sottile peluria bionda dietro il collo, al contatto con quella morbida consistenza, s'elettrizza insieme ai capelli.
Questo tempo lo sento addosso, come un abito. A volte mi soffoca, mi stringe alla gola come mano grande e ferma; le Ore sono gelose dei Minuti. Altre volte, invece, mi lascia libera di correre, scalza, su terreni ancora inesplorati, mi dà la possibilità di ascoltare la tua voce che candidamente svela, con un ritmo tutto suo, il tuo nome. Ti sorrido quando tu non mi vedi, seduta a terra, incrociando le gambe e tirando, fin sopra le ginocchia, la sottana. Quando ti vedo arrivare, mi alzo, prendo tra le dita gli angoli della gonna, come facevano le dame dell'ottocento e mi inchino, delicatamente, e mentre tengo gli occhi bassi sul pavimento, un ingenuo sorriso s'apre sulle labbra leggermente rosate.
La notte, quando mi svesto, rimango nuda a fissare la mia pelle bianca come latte. I capelli sciolti sulle spalle, sembrano miele. Nuda e sola coi miei errori, appendo il tempo ad una stampella, con la voglia, l'indomani, di cucire un tempo nuovo.


On air: "Fuori dalla Notte" - Ludovico Einaudi.



16 novembre 2007

Bonjour Ignorance.


Sei belva con denti affilati ed occhi scuri nei quali non riesco a leggere. Temo il tuo volto. La tua maschera ha i tratti di gente comune, persone che conosciamo, le cui vite incrociamo troppo spesso. Persone educate, con cui sorseggiamo il caffè al bar, con cui commentiamo il giornale appendendo alle nostre labbra frasi di circostanza e anestetici sorrisi. Sei un mostro che deturpa la nostra società, che tutto divora. Sei qua, Ignoranza. I miei occhi ti vedono, le mie orecchie ti ascoltano, le mie mani ti toccano, le mie gambe ti raggiungono. Ti scovo. Divento guerriera spartana, provo a combatterti senza paura. Le mie parole sono le mie armi e a proteggermi dai tuoi colpi è pronto il mio scudo d'argento. Lo scudo è pesante - a volte troppo - fatico a sollevarlo mentre tu mi sferri i colpi. Mi hai seguita per azzannarmi al collo, mentre camminavo, ignara, sulla mia via. Riesco a schivarti, comincio a scappare, senza voltarmi. Non voglio incrociare il tuo sguardo. Respiro affannosamente, divorando cubi d'aria che rigetto con tanta rabbia. Il freddo arriva dalla pelle al cuore. L'immagine che si riflette negli occhi mi fa tremare. L’Ignoranza ha molti abiti, l’indossa col sorgere del sole e fino a notte alta non fa che mostrarli. Quest’orribile mostro lo incontro, tutti i giorni, portato al guinzaglio dall’Indifferenza che balla in punta di piedi, sotto ponti dimenticati e baracche che puzzano di piscio di cani e dei loro padroni, esseri senza nome. Nei locali alla moda s’incontra l’Ipocrisia, che ha sempre la cravatta nera, il Potere, che nasce e cresce tra le mani di chi si scambia regali e bottiglie di champagne. La Violenza, sempre vestita di rosso e nero, che - come una bella donna - si lascia accarezzare e poi t'infilza con le sue unghie smaltate. Non manca nemmeno lei. La Paura. Anziana signora che ti annusa, segue le tue tracce, con passo felpato s'avvicina, chiude gli occhi mentre ti annusa i capelli e si ciba dei tuoi sogni. S'insinua sotto pelle come pulce invisibile e quando ne prendi coscienza è già troppo tardi. Fa parte di te. E' neo invisibile sulla tua pelle. Infine, l'ultimo dio. Il dio Danaro. Il più amato. Per lui si è pronti a vendere l’anima al diavolo. Lo vedo in quella casa lussuosa. Scende le scale, con i capelli tirati indietro, scuri. Elegante nel suo completo grigio, le scarpe tirate a lucido. Si ferma su quel gradino e ci guarda dall'alto in basso con quello sguardo che significa "tu sei già mio ma io voglio di più". Tu abbassi la testa, ti guardi le mani e non ti riconosci più. Ti copri il viso con le mani. Alzi lo sguardo verso quegli dèi maledetti che banchettano. L'ignoranza, l’Indifferenza, l'Ipocrisia, il Potere, la Violenza, la Paura. Sorseggiano vino rosso d'annata, lascive, si strusciano l'una sull'altra. Formano una piramide di corpi su quei gradini. Tu ti senti piccolo, laggiù in basso. In fondo. A tutto. Guardi intorno a te, fuori da te, dentro di te. Cerchi, roteando gli occhi, un punto di luce, qualsiasi esso sia. Lo cerchi e non lo scorgi. Continui a respirare e a correre. L'aria si fa pesante, le gambe tremano, il cuore ti urla nel petto. Le lacrime, cadendo, si gelano. La tua pelle è piena di nei. Vorresti strapparla via, morderla e farla a brandelli pur di non vedere quei punti costellare la tua identità. Un senso d'inadeguatezza ti strattona ma tu ti ribelli. Ed urli e scalci e sferri pugni in aria, combatti contro qualcosa che è più grande di te, a mani nude. Lo scudo d'argento è troppo pesante. Loro sono ancora là. Svestite, truccate, si baciano e continuano l'orgia dei sensi, le loro risa risuonano nella sala. Stanno asservendo sempre più gente ai loro piedi. Gente che domani indosserà gli abiti dell’Ignoranza, dell’Indifferenza, dell’Ipocrisia, della Violenza, del Potere e sul viso, come in un ballo in maschera, maschere.


On air: "Requiem for a Dream" - Clint Mansell.

14 novembre 2007

Vertigini.


L'aria è umida, le scarpe sono pregne d'acqua. L'asfalto è liquido, gli ombrelli colorano la città.
Il cielo è creato dalle mani di un bambino che sta imparando a disegnare. Un ragazzo indiano è seduto sotto la tettoia del distributore di benzina. Gli passo accanto, lo fisso negli occhi qualche secondo. Mi colpiscono i suoi denti bianchi. Mi sta sorridendo. Non posso che ricambiare quel sorriso, così spontaneo. Continua a piovere, ininterrottamente. Tutti corrono, sembrano avere un motivo per cui correre, una meta dove fuggire o da cui fuggire. Io, sola, cammino. Con la testa rivolta a quel cielo così muto, in questa giornata qualunque.
Un senso di pace, improvvisamente, m'invade, come una vertigine inaspettata. Perdo l'equilibrio, i piedi vogliono cambiare rotta. E' forte la voglia di camminare sotto quelle gocce, di abbandonare l'ombrello, di rivolgere i palmi delle mani verso l'alto e guardare quelle silenziose sfere atterrare sulla pelle. Nascondere il viso, come una tartaruga, nel mio cappotto, lasciando scoperti solo gli occhi, per cibarmi di tutto quello che c'è là fuori.

Mi sono chiesta chi fossi oggi e poi, di colpo, ho capito.
Ero una spugna. Una spugna di quelle grezze, gialle, morbide, che bevono tanta acqua mischiata a sentimenti ed esperienze, pelli e odori, sorrisi e occhi malinconici.



On air: "Those Dancing Days Are Gone" - Carla Bruni.



Foto: "Sky over Rome" - Claudio Martella.

12 novembre 2007

Marmellata d'Arance Amare.


Oggi camminavo sulla mia strada, tenendo lo sguardo fisso a terra. Persa nei miei pensieri contorti, senza che l'inizio sperasse d'incontrare la sua fine.
Colori forti, in questa giornata d'asfalto grigio, mi passavano per la mente.
Ed ecco l'arancione di un palazzo di Lisbona, il giallo dei limoni di Sorrento, il blu cobalto del mare della Grecia e poi il rosa dei tramonti estivi che si mischia a quel sapore di vacanze e di sale.
Un sapore amaro improvviso si è sciolto sulla mia lingua.
Il sapore di una giovinezza persa troppo in fretta. Il sapore di una morte che, ingiusta, ha reciso il tuo sorriso. Un misto di sentimenti si sono spalmati sul cuore, come una marmellata d'arance amare. Uno di quei sapori che ti fa digrignare i denti e scuotere la testa in segno di disgusto.
Dopo le prime lacrime sciolte sulle prime pagine, la vita continua il suo canto. E di te non rimarrà che una foto a colori.
Ieri le fiaccole, oggi gli aperitivi. La vita riprende il suo corso e tu non ci sei più.

Ovunque tu sia, un sorriso per te.

Amaro è per chi muore.


A Gabriele.


On air: "Ain't No Sunshine" - Lighthouse Family.


Foto di Pascal Renoux.

11 novembre 2007

Mia Giovane Penelope.


Capelli come corde d’arpa ed occhi profondi come verità nascoste. Gambe di gazella, cuore di lupo, anima d'aquila. Dal tuo seno mi sono nutrita, dalle tue mani ho imparato cosa fossero le carezze, dalla tua lingua ho conosciuto i primi suoni, dal tuo profumo ho capito che ero viva.
Questo giorno ti vede donna e madre. Ti vede forte come radice d’albero secolare e fragile come goccia di rugiada. Alla tua onestà intellettuale io anelo. Respiro la tua esistenza ad ogni passo che compio, rispetto la tua forma d’essere e ti amo come non immagini.


Mia giovane Penelope, tanti auguri.


On air: "La Polonaise In Ab Major Op. 53" - Chopin eseguito da M. Pollini.


Quadro di Fernand Khnopff.

09 novembre 2007

[Caresse-Moi]


*Emozioni in costruzione*

On air: "Le Soirées Parisiennes" - Louise Attaque.



Foto di Pascal Renoux.

08 novembre 2007

Larmes Artificielles et Fumée Noire.

Le mura della sua stanza sono come un fortino. Ci si chiude nel proprio mondo, si viaggia su questa voce accompagnata dal ticchettio di dita - su questa tastiera nera a lettere bianche - che ne tiene il tempo.
Il tempo. Si pensa di averne sempre a disposizione.
Stanotte ha sognato suo nonno. Ha pianto abbracciata a lui, gli ha implorato di restare, ancora un pò, solo un altro pò tra le sue braccia. Apriva le narici sulla sua giacca di velluto. Ne respirava l'essenza, l'assenza. Nei suoi grandi occhi di ghiaccio ha letto la distanza che c'è tra la realtà ed il sogno, tra la speranza e l'impossibilità di cambiare. Eppure quegli occhi di ghiaccio l'hanno riscaldata.
Non si è struccata ieri, prima di andare a dormire.
Stamattina si è svegliata con il rimmel un pò sciolto sotto le ciglia. Ha pianto nel sogno. Ha pianto nel sonno.
E' triste, oggi. E' triste d'essere triste e ha un nodo in gola che non riesce a sciogliere. A volte desidera d'esser sola, di non appartenere a nessuno, di non sentirne il bisogno. Si ha voglia di bastare a se stessi. Vorrebbe evitare di prendere la rincorsa per saltare gli ostacoli. Perchè quando si cade dal terzo piano ci si fa male.
Invece, quegli ostacoli ci sono. C'è la voglia di andare lontano. La voglia di essere nomade, senza famiglia, senza casa, senza valigia. Portare, appesi al collo, solo i ricordi, intrecciati come una collanina di margherite. Ingoia queste parole che nascono dalle sue mani, senza che lei possa fermarle. Crescono e trovano questa pagina nera. Il cursore lampeggia e le incoraggia. Ventiquattro righe ed ancora dolore e ancora paura, parole vomitate mentre si sta ancora mangiando. E le parole si prendono per mano. Fanno quello di cui lei non è capace. Si lasciano prendere per mano. Lei, no. Lei scivola lentamente sul suo dolore e si lecca il pelo - ed il vizio che non perde - come i gatti.
Vorrebbe che dai suoi occhi cadessero lacrime artificiali.
Ma le sue non sono artificiali. Sono lacrime secche. E sono ancor più amare e salate.


In un'altra stanza, piccoli quadri impressionisti incorniciano le mura color pesca. Lei è seduta sul bordo del letto, fuma, nervosamente. Si dondola su se stessa, inseguendo su colline scoscese, le sue preoccupazioni. Il fumo prende le forme delle ore. Le ore che lei trascorre coi suoi silenzi. Ma questi sono troppo rumorosi perchè gli altri non se ne accorgano. Lamenti nella notte e singhiozzi soffocati e deliri esistenziali e ricordi che hanno la forma di antichi abiti cuciti a mano e sofà bordeaux tutt'impolverati. Il passato che suona il "Requiem di Mozart" e s'immagina il suo funerale. Quanta tristezza aleggia in quel fumo. Quello stesso fumo che racconta di lei liceale, di lei in quella Deux Chevaux partita dal sud Italia e arrivata sino a Bruge. Una perla blu sorretta da tre piccoli diamanti intorno al suo collo. Questo è quello che avrebbe desiderato regalarle. Rinunce e frustrazioni. Auguri scritti a mano, con una grafia che trema e ha la forma di lettere infantili. Si gioca a fare il ruolo della vittima e del carnefice. Oggi si è agnello sacrificato, domani lupo famelico. Il fumo si dissolve e rimane il suo viso che le parla senza proferire suono. Il suo viso riesce a straziarle gli occhi. Quanto dolore in quegl'occhi e quanta impotenza. Quanta rabbia e quanto passato masticato e non digerito. Si urla, silenziosamente, al cielo. Bestemmia un dio che non è il suo, ad occhi bassi. Si maledice il giorno in cui. Si ama. Si odia. Si respira quel fumo. Si mangiano unghie ed anima. E si torna a dondolare.

On air: "La jeune fille aux cheveux blancs" - Camille.

Foto di Chuwwa

07 novembre 2007

In Aria.


Un paio di calzettoni blu, di filo di scozia, uno spillone dorato teneva chiuso il kilt scozzese, un blezer blu, una camicia bianca, le scarpe "college". Due codini biondi, ben pettinati, talmente lunghi da arrivare fin sotto la schiena. Gli occhi limpidi. I denti un pò radi, un naso impercettibile si perdeva in quel viso perfettamente ovale. Le sopracciglia chiare, le labbra sempre un pò screpolate. Una bambina timida, si reggeva alla gonna della mamma, dove spesso ci nascondeva il viso, arrossendo.
Sgranava i grandi occhi al mondo, sempre in cerca di conferme, sempre con le mani fredde, perchè aveva paura dei giudizi degli Altri e della maestra Cesarina che urlava sempre durante l'ora di geografia.
Odiava i riavoli di Giuseppe, il cuoco della scuola. Quei "ravioli alla salvia" che per lei avevano il sapore della muffa.
Nascondeva nel piatto, sotto il purée di patate, la carne che non le piaceva e corrompeva, con i baci, la signora Renata, una delle domestiche della scuola, che la considerava come una "figlia" e le dava sempre i leccalecca senza farsi vedere dagli altri bambini.
Nel grande parco della scuola c'erano tanti giochi. Il suo preferito era l'altalena. Ci si avvicinava sempre saltellando. Prendeva la rincorsa e poi ci saltava su con un grande slancio aiutandosi con quei pochi chili fatti di ossa ed innocenza.
Trascorreva lì tutta la ricreazione mentre gli altri bambini giocavano "a lupo a lupo" o alla "mela avvelenata". Lei, invece, no. Se ne stava lì a dondolarsi, coi suoi pensieri, a contare le nuvole e a cercare, con lo sguardo, i trifogli.
In questo pomeriggio di luce invernale, mi è tornata alla mente quella bambina fortunata, che giocava in quella splendida scuola. Quella bambina di cui oggi non ricordo i sogni, o le paure più intime. Eppure, in questo preciso momento, riesco a percepire l'odore dell'erba sotto i piedi e l'energia di quella bambina i cui grandi occhi, in questo pomeriggio di novembre, vedo ancora.

On air: Keith Jarrett.

05 novembre 2007

GiraVolte.


Vortici d'aria intorno ai fianchi. La gonna si gonfia. Le braccia tese mentre ti fa volare, la testa all'indietro, la bocca aperta, i denti come avorio, la lingua come fragola, le mani come in un dipinto rinascimentale. La schiena come pelle di pesca, i piedi come ali su note di carillon. Ci si allontana ma la propria ombra rimane. Si torna a girare su se stessi.



On air: "Tu me fais tourner la tête " - Edith Piaf.

03 novembre 2007

Rond du Rendez-Vous.


Tutto cominciò in una notte di qualche anno fa.
Notte di lampioni e di luna timida che stentava a rendere pallida la mia pelle. Non ricordo il numero civico, ma ricordo il colore della maniglia di quel grande portone di legno. Era una maniglia d'ottone, un pò consumata. S'intravedevano, sotto quella porta, le luci del cortile dello stabile. Cercai il suo nome tra le tante targhette fluorescenti. Non lo trovai, in un primo momento. Allora, mi alzai sulle punte dei piedi, per cercarlo, come fa una bambina per farsi notare, al bacone del panettiere, con in mano il foglietto della spesa, scritto dalla mamma. Curiosa, col cuore che corre come un pazzo da legare. Era così difficile contarli quei battiti..
Come una scena rallentata di un film, ricordo esattamente il rumore che fece la porta, aprendosi. Col viso basso ed un buffo cappello in testa, la prima cosa che notai furono le sue scarpe. Celesti. Sorrisi, socchiudendo gli occhi. Alzai, timidamente, lo sguardo. Un corpo sottile ed elegante, una verticalità quasi gotica, fragile colonna dalle braccia lunghe, stava retto dinnanzi a me. Un naso insolente, i capelli molto corti incorniciavano quel capitello i cui occhi erano lapislazzuli; indossava una felpa scura con il cappuccio, troppo leggera per quel cielo che sembrava volesse nevicare; il dorso delle mani era viola, non so se per il freddo o per l'emozione. Avrei voluto disegnarci, con l'indice, delle stelle, fino a formare il mio nome. La prima cosa che pensai fu: "Sono arrivata fino a qui. Lui ora è davanti a Me. E' forse questa la Felicità?". Avrei voluto che tutto si fermasse in quel preciso istante. In quell'istante in cui lui affondò il suo viso tra i miei fili dorati ed io strinsi tra le mie braccia il suo collo da cigno. Era tutto magicamente surreale. Parlammo qualche minuto in quella notte gelata, senza stelle, senza tempo, senza spazio, in una lingua tutta nostra, una lingua senza suoni e senza apostrofi, una lingua fatta di gote rosse e occhi imbarazzati e assonnati. Una lingua che non conosce nazioni, passaporti e dizionari. Dai suoi occhi ho letto frasi di un sentimento giovane - e per questo confuso - e ho lasciato che lui decifrasse i miei. Dalle sue mani che tremavano ho letto la paura di lasciarsi andare a questo presente un pò sfacciato.
Il giorno dopo ci incontrammo, ancora. Il fiume scorreva lento alla nostra sinistra, le papere galleggiavano come fossero di gomma, le biciclette erano tutte in fila, ordinatamente parcheggiate lungo il marciapiede. Gli uccelli disegnavano con le ali il loro tragitto ed anch'io spiccai il mio volo, verso quell'appartamento, al terzo piano.
Ricordo quella piantina appoggiata sulla mensola che divideva l'angolo cottura dalla zona notte. Sorrisi vedendo che lui, passandoci accanto, ne accarezzò le foglie. Si girò e vedendo il mio stupore, esclamò ironicamente: "Perchè mi guardi così? Le piante hanno bisogno d'amore, come le persone".
Capii in quel momento che avrei voluto essere io quella pianta, anche solo per una frazione d'attimi, che avrei voluto che le sue dita si appoggiassero sulle mia labbra, come fossero fili d'erba.
Scrutai, attentamente, ma senza farmi accorgere, quel suo piccolo mondo. Mancava qualcosa, però. Mancava quel "tocco femminile" che non è presente dove non c'è Amore.
Ci sedemmo distanti l'uno dall'altro. Quasi una "distanza di sicurezza", per non cadere in quella trappola di profumi e frutti proibiti.
Con una voce timida ed insicura, guardandolo dritto negli occhi, fui capace di chiedergli solo una cosa: "Posso mangiare una mela?".
Lui mi sorrise passandosi una mano tra i capelli.
Mi diede quel frutto e mise su una canzone.
Tutto cominciò in quella notte di qualche anno fa.

On air: "Monsieur" - Thomas Fersen.

Foto di Pascal Renoux.

01 novembre 2007

Sottolingua e Sottopelle.



Gli scatoloni sono vuoti, pronti per essere riempiti.
I cuscini rossi e bianchi, che fanno pendant con le sedie. Il comodino dell'Ikea, montato all'una e mezza di notte, mentre io mangiavo la nutella col cucchiaio e tu cercavi le viti sotto il letto. Le tazzine di tutti i colori, i bicchieri biancopachi che mi piacevano tanto, il forno a microonde che ormai lo sai pure tu che le onde non funzionano più, ma lo tieni per ricordo, lo strofinaccio appeso al mobile di fianco al lavandino. La lampada costosa, la libreria piena di oggettini semi-utili. L'armadio è aperto, una felpa a righe - verdi e bianche - è appesa col cappuccio all'anta.
Le scarpe sotto l'asse da stiro di cui io non saprò mai che farmene. Le marmellate di tua madre, così buone, tutte da spalmare sul pane appena fatto.
Bisogna tirar fuori il vecchio lampadario della proprietaria e rimontarlo. Ricordi com'era brutto ed impolverato il primo giorno?. Niente a che vedere con quello che ti ho fatto comprare io. Sì, lo so. Ti ho fatto montare anche quello, di notte, ma se ricordi bene, la nutella era finita ed io ero tutt'intenta a reggerti per le caviglie, perchè avevo paura che tu potessi scivolare dalla scrivania.
Che bella luce faceva quel lampadario moderno.
Si rifletteva sul vetro della finestra. Le tende rosse da cui s'intravedeva sbuffare la canna fumaria del camino del vicino.
Oggi si staccano dal muro i posters anarchici, quello di Salvador Allende e i visi che sanno d'amore e di forza tutta al femminile. Le tazzine si avvolgono nella carta, con cura ed amore, nemmeno fossero bimbi in fasce. Le magliette si piegano su loro stesse, un pò tristi per dover cambiare un'altra volta ripiano. L'asse da stiro sa che verrà tirato fuori solo in qualche giorno speciale, per far festa insieme a qualche camicia stropicciata.
Si parte e s'arriva. Non si fa in tempo ad arrivare che già si riparte ed allora altri scatoloni. Ed un altro trasloco. Ed un altro armadio. Ed altri ripiani. Ed un'altra doccia. Bisognerà comprare un tappetino antiscivolo, prima che ci si rompa l'osso del collo. Ed un grattuggia parmigiano, che quello, lo sai, non manca mai.
Vorrei che tu avessi staccato, solo oggi, tutti i miei post-it. Ricordi? Quelli su cui ti avevo scritto " E perchè?". Al rientro, vedendo la parete tappezzata di giallo, scoppiasti in una fragorosa risata ed io fui felice come una liceale. Quello che ancora non sai è che scivolai per farlo. Scivolai perchè salii sulla spalliera del letto, persi l'equilibrio e finii con il sedere per terra. Risi come una stupida da sola, piegata su me stessa, reggendomi con una mano la schiena dolorante.
Ma ero così fiera di me e dei miei "perchè" a cui non sapevo dare una risposta.
Tuttora mi chiedo il perchè di molte cose. Mi chiedo perchè sono qui a pensarti e mi chiedo perchè avrei voluto aiutarti ad avvolgere, ancora oggi, quelle tazzine. A questi perchè una risposta non c'è.
C'è solo quel sapore di nutella sotto la lingua e quel ricordo di felicità che m'attraversa sotto la pelle.


On air: "I don't know what i can save you from" - Kings Of Convenience.


30 ottobre 2007

Ruvidaseta e Mielamaro.


Si contano i giorni, le ore, i minuti, i secondi. Si contano i respiri, si gioca con le ciocche dei capelli ancora umidi, tra le dita, si beve caffè per rimanere sveglie e tisane per calmarci, perchè il caffè ci ha rese nevrotiche.
Si aprono le mails, si leggono, si traducono e si rileggono, si sorride, ci si sente confuse. Si guarda il campanile e si pensa come tutto, qui, sia a portata di mano. Si sentono i rintocchi delle campane. Uno, due, tre. E' mezzogiorno ed è già ora di partire, con quei ventuno chili di sicurezze, quei ventuno chili che hanno il sapore di casa, della tua stanza, e se guardi bene, può darsi che tua madre ti abbia nascosto, sotto i vestiti, un pacco di spaghetti n° 5, Barilla, ovviamente, per non farti dimenticare il sapore della tua cucina. Le parole scivolano come il sapone sul lavabo appena pulito. Le bolle rimangono intatte, ancora un pò. Come il ricordo di quando prendesti la decisione di saltare.
Ogni viaggio è un salto. Nel vuoto, nel buio, sul fieno, nell'acqua, tra le braccia di qualcuno che le ha aperte in tempo per acchiapparti, o nel freddo di una stazione dove nessuno ti sta aspettando. Una casa col camino o con un vecchio termosifone arruginito con la vernice scrostata. Col bagno pulito ed il letto scomodo. Ci si gira e rigira nel letto, di notte, perchè non riconosci l'odore dei muri ed il cuscino è troppo alto. Togli il cuscino, lo poggi ai piedi del letto. Le braccia sotto la testa. Fissi il soffitto, chissà quanti occhi l'avranno già fissato prima di te. Sorridi, ti mordi il labbro. Pensi a domani. A cosa fare, dove andare, cosa mangiare. Quanto costerà la vita qui? Sarà lontana la metro da casa? Come sarà domani?. Mi mancheranno gli Altri, e più di tutti, mi mancherò Io, domani?.
Non ci è dato saperlo. Domani arriva prima che tu te ne accorga.
Quello che lasci qua è ruvidaseta e mielamaro. Quello che domani troverai là potrebbe essere la stessa ragazza o una stoffa liscia come la tua pelle che io non conosco - ma che immagino - ed un sapore dolce come il caffè molto zuccherato che piace a me.
Non sei sola, mai. Tutto comincia e finisce, sempre è così. E' in quell'intervallo di tempo tra l'inzio e la fine, che devi vivere. Come se il tempo non bastasse mai. Anche se a volte si ha paura, anche se le catene ti tengono inchiodata a terra. Tu sei un uccello libero da schemi, reti e pregiudizi.
Sei forte come uomo e sensibile come donna, sei sincera e tagliente come lama affilata, sei impulsiva come pugno inaspettato, sei notte illuminata da luna piena, sei bici che corre in discesa. Sei miele e seta.
Non smettere mai di giocare, di stupirti e di tenere sempre alta la guardia.
Buona vita laggiù.


On air: "Raphael" - Carla Bruni.


Foto: "I Sk8 NY" di AnomalousNYC's.

28 ottobre 2007

Luci di Strada.


Guarda il cielo, sembra che stia per piangere. Freneticamente, con andamento ritmico, sbatte i tacchi degli stivali l'uno contro l'altro, le mani nelle tasche del cappotto, le guance chiare, tirate. Sente freddo. Controlla l'ora. Osserva, in lontananza, il capolinea del 630. Si rende conto d'essere in perfetto orario. "Che strano" dice, con un sorriso sulle labbra.
Passano dieci minuti e l'autobus tarda ad arrivare. Diavolo, non è più in orario. Ha tutto il tempo di osservare le macchine che passano, lentamente. Gioca con l'ombrello, lo fa girare. E' bello vedere, in trasparenza, le gocce che si fermano sul nylon celeste, rimangono per un pò in bilico sulla cucitura per poi precipitare, velocemente, sull'asfalto. C'è tanta gente che aspetta come lei, con lei. Tutti coi loro pensieri, sotto la pioggia. Ha fretta, oggi. E' emozionata, oggi. E' impaziente, oggi. Incredibile come, in pochi minuti, si possano provare così tanti sentimenti.

Ecco arrivare il 630. Sale di corsa. E' fortunata, trova posto a sedere. Piove forte, al di là del vetro. Tutti dicono la stessa frase, che è entrata a far parte, ormai, dei detti comuni: "Incredibile, quando arrivano due gocce d'acqua, Roma si blocca!". Ride, perchè è sempre la stessa storia.
Yann Tiersen, con la sua fisarmonica, sta viaggiando con lei. Ha percorso così tanti tragitti con lui e le sue note, che se non l'accompagnasse ancora, le sembrerebbe di sentirsi sola.

Eccola là Roma, in tutto il suo splendore, nonostante il cielo triste e l'aria umida.
E' il momento di scendere. Lo fa un pò goffamente. Apre, a fatica, l'ombrello che si era impigliato nella tracolla della borsa. Ha fatto tardi, come al solito.
Le gocce si moltiplicano diventando tante, finemente pungenti. Le bagnano le lenti degli occhiali da vista. Ora vede tutto offuscato. "Inutile provare a pulirli, troppo complicato", pensa. Prosegue correndo in punta di piedi come una ballerina, in equilibrio, cercando di evitare le pozzanghere.
Arriva all'appuntamento, con quegli occhiali appannati che nascondono l'emozione che c'è dietro. Con il naso all'insù cerca sulle scale "una sciarpa arancione". Socchiude lo sguardo per mettere a fuoco. "Eccola!", pensa sorridendo.

Si scioglie in un abbraccio, tutto nuovo, tutto da scoprire.
Una piramide di cristallo li ospita mentre un tè bollente li riscalda. Si gesticola, ci si guarda con curiosità, con timidezza, con ammirazione. Ci si scruta quando l'altro per un momento posa lo sguardo sulla bustina dello zucchero, facendo attenzione a che nessuno si accorga di nulla, ma tutto appare così naturale. Le mani, ora calde, vorrebbero prendere le sue, in segno d'amicizia, per dire "sono qui, siamo qui, finalmente".
Ci si racconta a parole o anche soltanto con uno sguardo, perchè, a volte, s'incontrano anime con cui è più facile comunicare, perchè ha già danzato scalza sulle sue righe, perchè già conosce il profumo dei suoi fiori, ma non conosceva, fino ad oggi, il rumore dei suoi passi. Fuori il vento continua il suo canto, Roma è una regina tutta bagnata, ma così elegante. La via dei Fori Imperiali è piena di luci ma niente è paragonabile alla luce degl'occhi suoi. Li fissa, celando una contentezza infantile. Ci si perde in quegl'occhi e poi si ritrova la strada, anche solo per il gusto di smarrirla ancora una volta.



On air: "Passaggio" - Einaudi.

26 ottobre 2007

Regarde-moi.


Quando si ha paura di poter perdere qualcosa si chiudono gli occhi, quasi a cercare di trattenerne l'immagine il più a lungo possibile negli occhi. Non nella mente, negli occhi.
Si cerca di fermare i secondi, ogni battito sembra di troppo, ogni parola, superflua.
Si lascia che la musica parli di te, di lui, di voi.
Ogni immagine è composta da infinite scene tutte in bianco e nero, come quegli album per bambini, tutti da colorare, ogni ricordo è una pennellata di colori, di sorrisi e mani fredde, di tè bollenti e rose rosse, di vette bianche, di scarpe blu infangate, di ninnoli infantili che sanno d'attenzioni cercate e ricercate. Il passato ci compone, ci scompone, ci dà uno schiaffo in pieno viso quando meno ce lo aspettiamo, riaffiora in superficie. Il silenzio toglie la speranza, ammutolisce quei colori, toglie il coraggio di sognare, ancora. Il silenzio parla e parla. Lo si sente, continuamente. Ha occhi il silenzio. Ha orecchie e bocca il silenzio. Ha un nome. Ha il profumo del cioccolato sciolto e le nuances del cielo di Gauguin. Si vorrebbe scrivere senza virgolettare, senza punti, senza pause. Camminare per ore sotto la pioggia, sentire freddo, non importa quanto o se tanto. Che le lacrime si confondano con quelle gocce. Prenderti sul seno, accarezzarti, avvolti in una coperta rossa. Vedere fiocchi bianchi cadere su una fragola. Non avere quell'immagine negli occhi. Aprirli e trovarti ancora là, tra le dita.
Quando non si chiude la porta dietro di sè, si sente il vento ululare.


On air: "Si loin de toi" - Manu Chao.

22 ottobre 2007

L' Astéroide B 612.




Alt! . "Non oltrepassare la linea gialla".

Allora, ti guardo mentre ti allontani. Lentamente. Non t'importa della pioggia che t'inzuppa il giubotto.. già.. quello stesso giubotto che tieni sempre aperto, anche quando fanno meno tre gradi e ti viene da ridere nel vedermi strofinare le mani l'una contro l'altra, imprecando, nella mia lingua, per il tuo freddo a cui io non sono abituata.

Ti guardo immobile. Quasi pietrificata. Si piange nel sonno, il cuscino umido di lacrime.

Sveglia alle cinque e trenta. Si vede l'alba nascere sui tetti di Roma. Disegno con l'indice sull'ombra che fa il respiro sul vetro della finestra. Poi scompare. La strada lucida e quelle goccioline sui parabrezza delle macchine.. é così inverno, oggi.

E' arrivato il freddo anche qui. Anche qui, dove il freddo pensavo non potesse raggiungermi. E' arrivato nonostante il maglione pesante che ho tirato fuori dall'armadio.
Ho riposto nelle scatole, le magliette leggere, quelle tutte colorate, quelle di garza, le gonne di seta. Ho messo via, con cura, le "scarpe di Amelie", quelle che ti piacevano tanto.

C'è stato un cambio, oggi.

C'è una stagione per ogni cosa.
C'è una stagione per ridere, per piangere, per lottare, per fare errori, per imparare da quegli errori, per fare il cambio dei vestiti nell'armadio, per tagliarsi i capelli, per innamorarsi, per lasciarsi andare, per lasciarti andare, per lasciarsi.

C'è un tempo per tutto.
Questa è la stagione per crescere.

"Ne perds pas espoir, n'arréte jamais de te battre".
Je n'oublierai jamais. Promis.
Per sempre, quella voce di bambini.
Per sempre, le nostre ore.

On air: "Vois sur ton chemin" - Les Choristes O.S.T. .

19 ottobre 2007

Nue.


Si trascorrono notti a pensare, con la tivvù accesa senza volume, perchè a farti compagnia ci sono i tuoi pensieri che seppur silenziosi, fanno rumore. Le mura della stanza prendono il colore delle scene che si susseguono nel film. Mi sono sempre piaciute le ombre colorate che dipingono le macchine quando passano sotto casa, quei colori così indefiniti ed indefinibili, quelle piccole luci rosse e bianche, che sembrano danzare sul soffitto.
Ieri, quasi per caso, mi sono imbattuta nel mio primo blog. Molte foto, tante frasi importanti, tante emozioni su schermo, un altro modo di scrivere. Le stesse fragilità, forse. Ma un grande Amore. Ho sorriso, un pò amaramente. Ho chiuso quella pagina virtuale come si fa con un diario del liceo che ti fa tornare alla memoria tante cose, alcune belle, altre meno. Il passato appartiene come ad un'altra vita. In questo presente resto ancora immobile. Mi sento nuda davanti a me stessa.
Sono rimasta fino alle due e mezza sveglia a pensare alle indecisioni, agli sbagli, alle domande piuttosto inutili che possono assalirti nel cuore della notte. Quando a quelle domande, una risposta non è arrivata, mi sono alzata e sono andata a riscaldare una tazza di latte di soia.
C'è una frase che continua a girare tra il mio stomaco e la mia testa: "Non esistono uomini della nostra vita. Esistono uomini nella nostra vita". Non è una citazione famosa, ma è, per me, ancora più importante. E' di una Ragazza speciale.


On air: "Yashal" - Elisa.

13 ottobre 2007

Rami.


Si rimane attaccati alle proprie paure come una busta rimane incastrata tra i rami di un albero.
Gli artigli della paura ti infilzano la carne e nonostante tu provi a dimenarti, non c'è niente da fare. Lei ti ha catturato. Silenziose lacrime ti bagnano le guance.
Vedi la pelle che sanguina e l'unica cosa che riesci a fare è cucirti addosso con un filo di insicurezze, ciò che rimane di te.
Le scelte vanno prese come fossero aerei. Non si può titubare a lungo davanti al check-in. C'è tanta gente, in fila, alla tue spalle.
C'è tanta gente che bisbiglia, che dà consigli, che dice cosa fare e cosa non fare. Tutti hanno il passaporto nella mano, la propria carta d'identità, chiara come il foglietto illustrativo di una medicina. Ci sono scritte le dosi di autostima, le quantità di se stessi da somministrare agli altri.

Tu, no. Tu non possiedi alcuna carta, alcun foglietto su cui è disegnato uno schema. Lo schema dei sentimenti. Quello che hai in mano è un labirinto che tu stessa hai costruito ed è così contorto che nemmeno tu sei in grado di trovare il punto di partenza e quello d'arrivo.
Sai soltanto che là fuori, al di là del labirinto due braccia sono aperte, nonostante il gelo, nonostante il sale sul viso, lo sguardo non ha perso la vitalità, il cuore batte e batte e costante, ama ed ama.

La vita è come un aereo. Bisogna fare il biglietto, mettersi in fila rapidamente al check-in, passare il controllo tirando un sospiro, ad occhi chiusi. Il posto numerato, eccolo là. Siediti ed aspetta di sentire quel rombo alle tue spalle che ha un solo significato: andare. Lontano. Via da qui, da quel labirinto che un'uscita ce l'ha... ce l'ha. E tu lo sai.


On air: "9 Crimes" - Damien Rice.

10 ottobre 2007

Et voilà.



La sveglia del mio cellulare non poteva che essere questa: la "valse d'Amelie". Quelle dolci note risuonano nel mio orecchio sinistro.
"Merde", penso. "Sono già le 6.00. Mi devo alzare".
Metto prima un piede giù dal letto, poi, coraggiosamente, appoggio anche l'altro. Raccolgo i capelli, da un lato. Mi stropiccio gli occhi che sanno ancora di sonno (tanto sonno). Spengo il telefono. Mi trascino fino al bagno. Mi guardo nello specchio. Scoppio in una risata un pò isterica. Oggi è il giorno dell'esame.
Preparo il tè e mentre lo preparo, mi rendo conto che sto inzuppando il tavolo con la bustina, perchè sono troppo impegnata con la mente a ripetere il "bilancio d'impresa" e la "bancarotta fraudolenta".
Sì, certo. Perchè alle 6.15 della mattina è normale ripetere tra sè e sè la bancarotta e la posizione del povero fallito.
Ma qui la fallita, che inzuppa tutto, penso di esser io!.
Comunque, arrivo in facoltà alle 9.00.
Facoltà che si trova dall'altra parte di Roma, rispetto a dove abito io.
Ogni volta faccio il "viaggio della speranza" per arrivare fino a lì ed il giorno dell'esame mi sento come il personaggio del "leone codardo" del "Meraviglioso mago di Oz" e faccio il giochetto del "mi siedo o non mi siedo davanti al prof?" pur sapendo di esser preparata.
Pronunciano il mio cognome ed io, in un timido, "presente", mi faccio avanti.
Passano ben n-o-v-e ore dall'appello e risento pronunciare il mio nome. "Il signor preside l'attende".
"Ohssignor...preside...speriamo sia di buon umore, oggi", penso - ad alta voce - ed il segretario del preside non riesce a nascondere la sua risata.

E' andata. L'esame è andato giù come una pillola rivestita, di quelle che non s'attaccano al palato quando cerchi di ingoiarle.
Il leone ha trovato il coraggio che tanto chiedeva al mago.
Un esame in meno nella lista e tanta voglia di mettermi quella toga indosso, il giorno della laurea.

Ho raccontato la mia giornata, non perchè io mi senta fiera di aver dato un esame difficile. Quanti ragazzi, tutti i giorni affrontano esami, di tutti i tipi. Gli esami all'università sono solo delle prove. Facili o difficili, ma sono prove. Gli esami, quelli veri, non s'affrontano con il codice civile in mano, seduti di fronte ad una persona dall'aria impassibile. Gli Esami, sono le sfide che la vita ci lancia all'improvviso. La prova contro il vento ed il freddo, contro la fame o il caldo, ce l'ha chi, tutti i giorni, un tetto sulla testa non ha. Quelle sono le prove vere e dure.
Ritornando al mio discorso, dicevo, che ho raccontato qui la mia giornata per ringraziare due persone, in particolare, che mi hanno dato il coraggio, ieri, di trovare il coraggio di affrontare quest'altro "incontro".

Grazie a mia madre, che era lì con me ieri in facoltà. Grazie perchè è riuscita ad infondermi forza e tranquillità, adrenalina pura in endovena. Ha saputo come scuotermi nel momento di abbattimento, quando ci hanno detto che il preside avrebbe tardato. Lei ha scorto la mia faccia, pallida, come quella degli inglesi in un giorno di pioggia, e ha capito che un "kinder-duplo" ed una carezza sui capelli, sarebbero stati capaci di farmi sorridere.
Allora, grazie per la pazienza, per le ore aspettate come solo Penelope avrebbe saputo fare; per esserti confusa, con il tuo corpo elegante e sottile, tra le varie studentesse. Tu che con i tuoi capelli biondi, sembri ancora una liceale e ti imbarazzi quando ti dicono che sembriamo sorelle. Ed è proprio vero.
Grazie perchè nonostante ti facessero male i piedi ed i taxi non arrivavano, hai preso due autobus e hai viaggiato per diciassette fermate di metro, solo per accompagnarmi. Grazie per aver fatto ridere gli altri studenti, terrorizzati, come me, mentre aspettavamo il preside ritardatario.

Grazie perchè.. perchè. Ce ne sarebbero così tanti di perchè e altrettante risposte, che ora rimango senza parole. T'abbraccio, qui. Ma, ora, mi alzerò e verrò a farlo di persona.

E last but not least: sei Tu. Tu che mi leggi quando meno me l'aspetto. Tu che mi parli coi tuoi silenzi ed i tuoi messaggi inattesi. Dolci e concisi. Come te. Grazie, davvero. Per essere come sei, per esserci, ancora, qui, con me.

Et voilà. Domani è un altro giorno e tra due settimane un altro "incontro".

Foto: "Verba volant, scripta pure" di Marvos.

On air: "Piove"- Jovanotti.




08 ottobre 2007

Le Secret.


Quando in punta di labbra
scopri i miei segreti

vieni a perdere la ragione
in quel bacio tant'atteso

quando la luce delle candele
- affievolita -
non illuminerà più i nostri visi
d'eterni bambini

quando la notte perderà le sue difese
vieni a giocare
con le stelle
e
senza rumore
guarda
quello che ancora siamo

amanti

.

On air: "Quelqu'un m'a dit" - Carla Bruni.

Foto: "Whisper" di Michele.

05 ottobre 2007

Gitane.


"Ho pensato a te, mentre l'ascoltavo. E' una sorpresa. Ti piacerà, vedrai".
Dalla sua stanza la canzone vola sino alla mia.
L'orologio segna le due. Il cielo è nero nero e non ci sono punti luminosi attaccati lassù. Regna un silenzio sacro e profondo, tra le mura di casa. Una candela patchouli dà luce a tutta la camera. Indossi le cuffie dell'emmeppi3. Ti rannicchi sulla sedia, nella tua felpa blu, chiudendo tra i palmi delle mani le orecchie, per riuscire a sentirle tue, quelle note. Uno scroscio di applausi e le grida di una piazza in festa, precedono quella voce. Quella musica popolare che ti è sempre piaciuta. Le sue parole, ti fanno fare una smorfia con gli zigomi. Quella voce inizia il suo canto. La sua voce.. inconfondibile.
Chiudi gli occhi e ti immagini in un altro dove. Inizia il viaggio. Corrono - come veloci gazzelle - immagini colorate, note scomposte e ricomposte, sapori gustati su pane caldo, alle sei del pomeriggio, sapori di una domenica qualunque. E continui a sorridere - con le labbra e con le ciglia degli occhi - non puoi non farlo.
Hai un'anima gitana, che si lascia accarezzare e subito dopo aver rubato qualche soldo d'amore, fugge via. Lontano, lontano. Si rintana in quel viale che sta a metà tra l'angolo dei ricordi e un'autostrada di emozioni. Ci vuole cautela, con questo cuore zingaro, che dimora ora non ha..

On air: Manu Chao. [Il titolo è una sorpresa, anche per me]

Foto di Rada Marin.

03 ottobre 2007

VerdeLuna.


Col sole negli occhi
arrivi nella città senza tempo.

Nelle tue note gitane,
notti di neve e tisane,
candide margherite raccontano
una bici rubata al freddo.

Nella fragranza dei tuoi ricordi,
il profumo dei miei.

Nelle lune d'argento
sui nostri visi,
un tempo nuovo

.

Per quell'abbraccio, sinora solo immaginato ed oggi, finalmente, consumato.
Per quel tuo rosso e quel tuo verde.
Per le "affinità elettive", che vanno oltre tutti i sensi razionalmente spiegabili.
Per queste mie parole, nate su una pagina del codice civile.
Per le tue parole, attraverso cui ti sei fatta strada, poco a poco, sul mio cammino.
Per le nostre storie, intrecciate come ceste di vimini.
Per Strasburgo, che mi ha fatto più di un regalo.
Pour toi, pour moi aussi.
Per tutto quello che verrà.
Per te, Verdemalva.


On air: "Canzone per Iuzzella" - Teresa de Sio.

01 ottobre 2007

Lentamente Pianoforte.


Una poltrona di seta beige, un cuscino di piume, in cui ti piace sprofondare. La testa appoggiata sul lato della spalliera. La sigaretta tra le dita. Il fumo che si scompone nell'aria. L'ascolti ad occhi chiusi. "Oh sweet daddy please, come home". Una lettera ancora lì, mezza aperta. La voglia di farci un aereoplano con quelle parole, per fargli prendere - finalmente - il volo. Per sempre. Via, da questo tempo. "Le persone infelici non le guarda nessuno". Nessun errore, nessun tentennamento. Tutto, fuori, è buio. S'intravede solo la luce delle candele, nel salotto del vicino buddhista, in preghiera. La sua voce si confonde con questo pianoforte. Piano-forte. Lentamente. Lenta-mente. E si gioca con le parole, come con i tasti di una fisarmonica che ami e che non sai suonare, come con le corde del cuore, che quando si spezzano e provi ad aggiustarle, lo sai, che non sono più capaci di cantare le melodie di una volta.
Ma si sorride, amour, perchè questo è jazz, perchè c'è tanto ancora da ascoltare, da giocare. Lentamente o pianoforte.

Pianoforte o Despacio y Firme.

Un sillón de seda beige, un cojín de pluma, en el que te gusta hundirte. La cabeza apoyada a lado de la cabecera. El cigarro entre los dedos. El humo que se descompone en el aire. Tú la escuchas con los ojos cerrados. "Oh sweet daddy please come home". Una carta que todavía esta allí, media abierta. La ganas de construir un avión con aquellas palabras, para que –por fin– tome el vuelo. Para siempre. Fuera de este tiempo. "Las personas infelices nadie las mira". Ninguna falta, ningún titubeo. Todo afuera es oscuro. Sólo se ve la luz de las velas en la sala del vecino budista que esta rezando. Su voz se confunde con este piano. Pianoforte, despacio y firme. Se juega con las palabras, como fueran los teclas de un acordeón que quieres y que no eres capaz de tocar, como con las cuerdas del corazón, que cuando se rompen e intentas arreglarlas, ya sabes, ya no pueden cantar las melodías de otros tiempos.
Pero hay que sonreír, amor, porque este es el jazz, porque hay mucho que escuchar, que jugar. Pianoforte o despacio y firme.

Muchas gracias a mi amigo Giro por haber corregido, desde Chile, mi traduccion.



On air: "Weary Blues" - Madeleine Peyroux.